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Nirvana Unplugged, il gran finale del secolo rock

Trent’anni fa usciva il disco che sarebbe diventato, purtroppo, il monumento funebre al genio di Kurt Cobain. Oggi sembra lontano anni luce, ma continua a risplendere

  • 22 novembre 2023, 08:43
  • 22 novembre 2023, 08:47
Kurt Cobain a MTV

Kurt Cobain a MTV

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Di: Michele R. Serra 

«This is off our first record. Most people don’t know it».
Poco importa che, in realtà, ci fossero ragazzini delle medie di mezzo mondo che conoscevano a memoria l’intro di About a Girl, che provavano a suonarla nelle loro camere, spesso riuscendoci – le canzoni dei Nirvana erano alla portata anche dei chitarristi meno talentuosi, tranne rare eccezioni. Almeno, per il me stesso fresco dodicenne era così.
Poco importava, in ogni caso, a Kurt Cobain, mentre presentava – in modo a dir poco modesto – la prima canzone della serata al pubblico radunatosi ai Sony Studios di Hell’s Kitchen, pochi passi da Times Square.
«Questa viene dal nostro primo disco. Molti non la conoscono». Già, certo.
Quella serata, poi diventata album della serie MTV Unplugged, sarebbe diventata l’ultima leggenda del genere musicale che aveva dominato la seconda metà del Novecento. Ed è ironico che l’ultimo lascito dell’ultima grande rockstar del secolo scorso abbia stampato in copertina il marchio di una tv commerciale; è ironico che il gran finale dei Nirvana sia un disco acustico. Contraddizioni evidenti, alcune delle tante che riempivano la mente di Kurt Cobain di martellanti dubbi sulla vita e sulla musica. E che spesso trovavano, con i Nirvana, una via di sfogo in performance artistiche meravigliose e sovversive. Proprio come MTV Unplugged in New York.

Ai Nirvana non piacevano granché, i dischi di quella serie acustica. Krist Novoselic e Dave Grohl l’hanno raccontato spesso negli ultimi anni, e in effetti non avevano torto: in mezzo a episodi riuscitissimi, come quelli di Neil Young, se ne trovavano molti altri i cui protagonisti suonavano una sfilza di hit esattamente come fossero davanti a ventimila persone al Madison Square Garden – ma con gli strumenti acustici. In altri casi, come quello degli R.E.M., il dibattito rimaneva aperto: i nuovi arrangiamenti imprigionavano l’energia delle canzoni in una melassa zuccherosa, o al contrario ne esaltavano la naturale dolcezza? Il rischio, per una band come i Nirvana, che faceva della potenza sul palco un vanto, era in ogni caso alto. Inoltre, MTV era sempre percepita come un’entità commerciale, in anni in cui vendersi era ancora un peccato mortale, e non il vanto che sarebbe diventato nel secolo successivo (detto, beninteso, con il massimo della laicità possibile).
Gli Unplugged di MTV si trovavano da sempre in una zona grigia, e rappresentavano uno dei tanti ossimori dello show business: concerti nei quali si usava il mezzo televisivo, per definizione falso, per offrire allo spettatore la sensazione di una maggiore autenticità. Su questo tema semiologico e filosofico insieme sono state scritte molte e più precise parole nel corso degli anni, e non è certo questa la sede per parlarne. Basti dire che l’MTV Unplugged in New York dei Nirvana riesce perfettamente a creare quella sensazione di autenticità che i produttori televisivi cercavano. E questo è anche, soprattutto, merito di Kurt Cobain.

Inutile stare a discutere dell’“autenticità” della figura di Kurt, che come altri suoi colleghi (certo, parlo di Eddie Vedder) è stato spesso messo in discussione e sezionato dalla stampa. Non è un segreto che in privato Cobain fosse più ambizioso di quanto il suo personaggio pubblico anticonformista lasciasse intendere: non era disinteressato, ad esempio, alla rotazione dei video dei Nirvana su MTV. Tuttavia, i Nirvana erano il simbolo del rock anti-commerciale, e la loro storia con MTV non era mai stata rose e fiori, fin da quando avevano rischiato di far interrompere la diretta dei Video Music Awards del 1992 a Los Angeles.
Riassunto della vicenda: i Nirvana vogliono suonare Rape me, MTV non intende permetterlo. Si accordano per fare Lithium, ma quando arriva il momento dell’esibizione la band attacca Rape me. Per soli cinque secondi, prima di lanciarsi sul brano previsto. E un secondo prima che la regia stacchi il collegamento. I manager di MTV si ricordavano questi episodi, e tuttavia i Nirvana erano particolarmente legati a una giovane produttrice della TV musicale, Amy Finnerty, che aveva puntato molto su di loro quando erano pressoché sconosciuti. Così, la band aveva accettato il contratto per la registrazione dell’Unplugged, ed erano partite le trattative. Kurt Cobain aveva deciso praticamente tutto, forte del suo potere contrattuale pressoché illimitato: era, in quel momento, la più grande rockstar d’America.

Così chiese fiori e candele (queste ultime, accese da lui stesso durante lo show), e comunicò che avrebbe voluto degli ospiti sul palco. MTV propose subito il già citato Eddie Vedder o Tori Amos, Cobain impose i Meat Puppets, misconosciuto gruppo cowpunk dell’Arizona del cui secondo album – pubblicato dieci anni prima – si era innamorato. Soprattutto, decide che metà della scaletta sarebbe stata composta da cover. Cover di artisti semi-sconosciuti (come i già citati Meat Puppets e i Vaselines), e di David Bowie, che nel 1993 viveva forse gli unici anni della sua carriera in cui era percepito come terribilmente fuori moda: il grunge era l’opposto del glam, e lui, beh… l’ultima cosa che la gente si ricordava di Bowie era Labyrinth. I produttori di MTV si erano morsi la lingua e avevano accettato l’accordo turandosi il naso.
Non sapevano che proprio le cover avrebbero cementato la leggenda di quel disco. Fino all’acuto finale, in tutti i sensi: Where Did You Sleep Last Night?, classico folk nell’arrangiamento del grande bluesman Lead Belly, di cui Cobain era innamorato al punto di aver parlato più volte della possibilità di fondare una cover band di blues in suo onore. La canzone, fuor di metafora, parla del sentirsi perduti in un mondo oscuro, indifferente, ostile. Kurt sembra cantarla fino all’esaurimento, all’esplosione delle corde vocali.

Rimane da chiedersi se l’Unplugged in New York – con quel modo di cantare così sofferto e la sensazione che Kurt Cobain stia davvero mettendo l’anima nell’offrire al pubblico un pugno di canzoni che ama – sia davvero la lettera d’addio di un artista depresso che aveva l’intenzione di togliersi la vita, come è stato più volte detto.
Oppure, solo un bellissimo concerto.
Oppure addirittura, una luce in un momento oscuro dell’esistenza del cantante, che avrebbe potuto persino portarlo alla salvezza.
Ogni lettura è possibile, oggi. Impossibile rimanere razionali, di fronte a queste canzoni e alla consapevolezza di quello che sarebbe successo dopo.
Quello di cui possiamo essere sicuri è che quel disco sia stato un piccolo miracolo, capace di mettere insieme idee apparentemente inconciliabili e risolvere difficoltà insormontabili, nel modo più semplice.
E – a trent’anni di distanza possiamo dirlo – è stato anche il gran finale del secolo del rock.
Il brutto maglione che Kurt indossava quella sera è stato venduto per 334.000 dollari nel 2019. Della maglietta delle Frightwig che portava sotto, non si sa niente. Se andate a Hell’s Kitchen, oggi, al posto dei Sony Studios c’è un bel condominio.

05:30

SUPERGRUNGER

RSI Cultura 13.10.2023, 10:19

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