Il recente disco del trombettista Wadada Leo Smith e del pianista Vijay Iyer, intitolato Defiant Life, ci ha richiamato alla mente una constatazione di Duke Ellington, il quale amava pensare al jazz come a un «barometro di libertà», al punto da considerarlo, senza tanti giri di parole, «l’unica espressione di completa libertà finora prodotta in questo paese».
Defiant Life è solo uno dei tanti dischi di jazz pubblicati da poco che vanno un passo oltre l’affermazione di Ellington, come se la sfida oggi non consistesse più soltanto nel riconoscimento dei diritti civili o nell’autodeterminazione del popolo nero d’America, ma nella sopravvivenza stessa della democrazia. This is not America, titolo di un brano di David Bowie e Pat Metheny di metà anni ‘80, era già monito di una deriva etica, sociale e politica, qualcosa che vent’anni dopo avrebbe trovato un’appassionata rilettura da parte della Liberation Orchestra di Charlie Haden, quando si trattò di denunciare la campagna “war on terror” dell’amministrazione Bush.
Per dirla in altri termini: il jazz come musica di protesta. L’intera storia del jazz può in fondo essere letta in questa chiave, al punto da prestarsi a una deduzione non solo plausibile, ma quasi dovuta, e cioè che il genere musicale americano per eccellenza – il jazz – si sia profilato come il veicolo più indicato per esprimere del dissenso nei confronti del proprio paese. Nella puntata di Bourbon Street di oggi daremo conto di come il jazz di questi mesi non abbia perso nulla della sua capacità di indignarsi e di denunciare qualunque circostanza in cui «il barometro della libertà», per dirla con Ellington, indica bassa pressione.
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