Una cosa ormai sempre più rara da trovare nell’elefantiaca produzione musicale contemporanea sono le registrazioni dal vivo.
I motivi sono tanti, e a volte anche ovvi, soprattutto se pensiamo a generi come il rap o la trap. Sono lontani i tempi in cui le band rock degli anni ’70 vendevano milioni di copie con i loro dischi live.
C’è solo un piccolo dettaglio: molti di quei dischi non erano affatto dal vivo!
Registrati in studio, o magari durante i soundcheck dei grandi concerti, spesso uno strumento alla volta – proprio come si fa in studio – con suoni di pubblico e rumori ambientali aggiunti a posteriori. E tutto sommato, ci può stare.
L’esperienza di ascolto di un disco è molto diversa da quella di un concerto. Le emozioni che si scatenano in un teatro o in uno stadio, davanti ai propri beniamini, rischiano di raffreddarsi notevolmente durante un riascolto: vuoi per errori (spesso inevitabili), vuoi per una qualità sonora non all’altezza, o per altri motivi. È comprensibile quindi che si sia fatto ricorso a qualche “sotterfugio” tecnico, come nel caso dei Kiss, che con il loro Alive! vendettero milioni di copie… anche se di “live”, in quel disco, c’era ben poco.
Ma come si è posto il mondo del jazz su questo versante?
Le tecniche di registrazione nei live album jazz variano moltissimo a seconda dell’epoca, dell’artista e dell’etichetta: si va dalla pura presa diretta, con microfoni ambientali e pochissimo intervento successivo, fino a produzioni che – pur spacciate per “live” – sono in realtà semi-studio opportunamente mascherati da concerto.
Per comodità abbiamo diviso i “live” dell’universo jazzistico in tre grandi categorie: per scoprire quali sono e quali grandi registrazioni vi appartengono, non vi resta altro da fare che ascoltare la puntata di Bourbon Street di oggi...
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