A proposito di stereotipi.
La mafia non è solo quella con la coppola del padrino, o quella con lo scooterone di Gomorra. A quanto pare, c'è anche una mafia danese, anche se a dire il vero sembra una mafietta: piccola criminalità, controllo del territorio, usura, estorsioni, qualche pestaggio, niente di più. Però i meccanismi sono gli stessi dei colleghi che stanno più a sud, soprattutto di simile c'è l'inquietante intreccio di rapporti familiari, che qui possiamo facilmente definire perversi senza sentirci per questo troppo moralisti.
La regista di Wildland, Jeanette Nordahl, racconta una famiglia malavitosa della Danimarca periferica, lontana sia dagli stereotipi dei racconti criminali dell'Europa meridionale che – a ben guardare – anche dalla tradizione del noir nordico. La protagonista ci capita dentro per caso: a diciassette anni perde la madre e finisce affidata alla zia, leader della gang composta dai suoi tre figli. L'abilità della Nordhal è quella di suggerire ciò che accade senza mostrarlo direttamente: quando l'attività della famiglia viene finalmente svelata a favore di cinepresa, si giunge al primo punto di svolta del film.
Non siamo di fronte a cinema rivoluzionario, beninteso. Però il meccanismo narrativo funziona con grande precisione, e gli attori riescono a dare profondità a personaggi che, tenuti giustamente al riparo da qualsiasi eccesso di sceneggiatura, rischiavano di risultare monodimensionali. Sidse Babett Knudsen è senza dubbio il volto più noto del cast, grazie al suo ruolo da protagonista nella serie Borgen (che Netflix ha appena ripescato dall'archivio decidendo di produrre la quarta stagione a quasi un decennio di distanza dalla terza). Dopo Wildland possiamo dire senza timore di smentite che la Knudsen sia la più importante attrice della Danimarca di questi anni, con la sola Connie Nielsen a poterne eventualmente insidiare il primato (Scarlett Johansson ha padre danese, ma è al 100% un'americana di New York, quindi non conta).
Wildland riesce a rinnovare il racconto criminale usandolo come metafora per sollevare domande sullo stato dei rapporti familiari, economici e di genere. Mentre la tensione cresce fino all'epilogo, che a ripensarci è prevedibile, ma quando arriva è inaspettato. Semplice e potente.