Dossier

Il teatro degli esclusi

Il percorso artistico di Danio Manfredini

  • 4 November 2019, 10:40
  • 3 November 2023, 15:10
  • TEATRO
Di: Daniele Bernardi

Ad Altaluce, un piccolo teatro discosto dal centro di Milano – su una scena, quindi, che ben si addice a certi scenari descritti da Jean Genet nei suoi libri: fuori scorre il Naviglio, mentre automobili notturne rombano sotto ponteggi infradiciati – un attore, dando le spalle al pubblico, occupa insolitamente l'estremo lato destro del palco. A una spanna da lui, un leggio e un microfono occhieggiano in penombra, mentre di fronte, proiettato su uno schermo, un grande acquerello ritrae un giovane sorridente. Lo spettacolo inizia col lento montare di una musica che, per l'intera durata del pezzo, mai si spegnerà; echi di uno strumento ad arco lasciano posto, man mano, a sonorità rock: fra queste, Comfortably Numb dei Pink Floyd.

Quando l'attore – con voce profonda ma, al contempo, dalle risonanze femminili – prende a leggere, nuovi acquerelli compaiono sul fondale: paesaggi di una sperduta campagna, dove spuntano poveri bugigattoli, si alternano a quelli di periferie malconce, di locali infestati da ombre di malavitosi avventori o ad interni in cui coabitano magnaccia e marchette. I tratti di pennello sembrano aver macchiato la carta come pioggia: grigio, azzurro stinto e, solo ogni tanto, rosso ruggine sono le tinte portanti di uno storyboard in cui, puntualmente, viene illustrata una personalissima versione di Nostra Signora dei fiori, il romanzo d'esordio che l'autore di Le serve e I negri scrisse nel 1942 fra le mura del penitenziario di Fresnes.

Per chi ascolta è chiaro, palpabile, quanto l'interprete parli di un universo che, intimamente, conosce. Non si tratta quindi di una stucchevole prova d'attore, ma, piuttosto, di un reale viaggio nei territori dell'interiorità, dove le visioni che si manifestano hanno la stessa purezza dei sogni dell'infanzia. Protagonista del racconto-affresco è Divine (questo, infatti, il titolo della performance), il protagonista del sopraccitato romanzo; un ragazzo che, dopo un violento battesimo sessuale a un crocevia di campagnia, consacra la propria vita al travestitismo e alla prostituzione. Sul suo cammino si affacciano altri, come lui, votati all'emarginazione: il compagno-protettore Mignon, l'adolescente assassino soprannominato Nostra Signora dei fiori, il «grande negro» Seck Gorgui.

Come forse qualcuno avrà intuito, l'artista in questione è l'attore, regista, musicista e didatta Danio Manfredini, una delle figure più autentiche del teatro italiano contemporaneo. Oggi sessantaduenne, Manfredini si è formato nel mondo dell'autogestione e del teatro di gruppo, frequentando dapprima il regista boliviano César Brie e, successivamente, personalità quali Iben Nagel Rasmussen, Dominique De Fazio e Tadashi Endo. Ostile alle logiche del mercato e di quello che, con Grotowski, ancora oggi potremmo chiamare l'attore-cortigiano, da anni, con ostinazione, porta avanti un percorso creativo meditato e preciso: fra i suoi lavori si ricordano Il miracolo della rosa (Premio Ubu, 1989), Tre studi per una crocifissione, Al presente (Premio Ubu come miglior attore, 1999), Cinema cielo (Premio Ubu come miglior regista, 2004) e il più recente Luciano (2017). Parallelamente, ha lavorato col Teatro Valdoca, Pippo Delbono e Raffella Giordano.

Come accennato, Manfredini non è interessato all'universo della iper-produttività (e del consumo) e non è raro che i suoi spettacoli di repertorio vengano riproposti anche a distanza di molto tempo; è stato il caso, ad esempio, di Al presente, tornato in scena, sempre a Milano, nella scorsa stagione del Teatro Out Off: un bellissimo assolo in cui, su una scena interamente rivestita di bianco, il performer vaga portandosi appresso un proprio doppio-fantoccio (quasi un simulacro di kantoriana memoria), incarnando ed evocando, da un lato, figure del proprio passato familiare (il nonno, la madre) e, dall'altro, i pazienti psichiatrici che ha incontrato nel suo percorso professionale (a lungo ha condotto atelier di pittura in una clinica).

Quella di Manfredini è dunque un'opera che pone in risalto la marginalità, la periferia umana, e la sua dannazione (da qui l'attrazione per Genet): omosessuali, folli e stranieri assurgono a simbolo di un destino che è, essenzialmente, solitudine e dolore. Eppure, in confronto alla sfacciatagine di una contemporaneità che ha fatto della più patinata superficie la propria cifra, quanto risultano veri i relitti dell'esistenza! Se attraversiamo il centro di una metropoli, non pare, oggi, di camminare nel corridoio di un aeroporto o fra gli scaffali di un supermercato, dove tutto è omologato, "intaccato" e massificato? Non sono meno corrotti i vicoli che si preferisce evitare, i clochards, i sans papier, i sociopatici e gli esuli?

In questo senso, chi sostiene che la pagina di Jean Genet sia, oggigiorno, superata o legata a un passato per noi oggi senza risonanze, si sbaglia di grosso. E il teatro di Manfredini ne è la prova: in un'epoca sfrontata, che vede erigere nuovi muri, respingere nuovi negri e puntare il dito contro minoranze delegittimate, le problematiche in essa contenute sono più che mai brucianti. Poiché un certo tipo di umanità non ha mai cessato di esistere e le manifestazioni che ne immortalano l'essenza rappresentano qualcosa di ben più grande di una mitologia dell'abiezione.

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