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Catch a Fire poteva essere la fine, per Bob Marley

50 anni fa, il 13 aprile 1973, usciva l’album che avrebbe rivoluzionato la musica, e la carriera degli Wailers

  • 09.04.2023, 22:35
  • 14.09.2023, 09:01
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Chi o cosa finirà per prendere fuoco?
Il messaggio dei testi di Bob Marley in Catch a Fire è potente e piuttosto chiaro: è un messaggio politico, un messaggio che si può definire rivoluzionario senza timore di smentite. Contro il capitalismo, il razzismo (che oggi molti amano chiamare) sistemico, a favore di una presa di coscienza delle masse sfruttate, e dei neri in particolare. Marley canta della devastazione umana nei ghetti, di una nuova schiavitù a cui molti uomini devono sottostare, determinata dalla struttura stessa delle città – e della società per estensione. Canta i neri che non saranno mai liberi finché non esisterà una forma di uguaglianza socio-economica, che ai tempi appariva lontana e oggi addirittura impossibile. Bastano le canzoni che aprono l’album, Concrete Jungle e Slave Driver. Impossibile avere dubbi.
Eppure il titolo di quell’album leggendario porta ancora con sé qualche domanda. Qualcuno scrive che Catch a Fire significa “finire nei guai”, in un non meglio precisato slang anglo-giamaicano. Altri, che la frase sia un riferimento al fuoco purificatore dell’inferno, destinato ad accogliere i moderni schiavisti. Altri ancora sostengono che sia semplicemente un invito a consumare più erba, magari nella forma del gigantesco spliff fumato da un Bob Marley ventottenne nell’immagine storica della seconda copertina del disco scattata dalla fotografa e attrice giamaicana Ester Anderson (i collezionisti sanno bene che la prima edizione del 1973 aveva una cover a forma di accendino Zippo, due metà di cartone che si aprivano per rivelare la fiamma all’interno: ma anche in quel caso, il riferimento alla ganja non era molto lontano). E anche se la prima ipotesi è tra tutte la meno sostenibile, i guai in qualche modo c’entrano, con la produzione di Catch a Fire. Guai che avrebbero potuto perfino impedire a Bob Marley e agli Wailers di diventare i principali artefici della diffusione del reggae giamaicano nel mondo – e ovviamente, nel frattempo, superstar della musica.

Catch a Fire: gli Wailers bloccati a Londra

Loro, a dire il vero, non erano tipi che perdevano facilmente l’autostima.
Dice Chris Blackwell – fondatore della Island Records e primo responsabile dello sdoganamento del reggae al di fuori della Giamaica – che quando Bob Marley, Bunny Wailer e Peter Tosh entrarono nel suo ufficio londinese nel 1972, sembravano già dei re. “Trasudavano potere e sicurezza”, ha scritto l’anno scorso nella sua biografia The Islander. Eppure gli Wailers e il loro leader non navigavano certo in buone acque. Negli anni immediatamente precedenti, avevano stretto un accordo con la CBS Records che aveva sotto contratto Johnny Nash, il cantante nero texano che aveva portato gli Wailers con sé come band di supporto per alcuni suoi concerti e che usava spesso Marley come autore (la prima versione di Stir it up registrata e portata al successo internazionale è stata effettivamente la sua). I tre Wailers erano stati con Nash nel nord Europa nel 1971, per scrivere la musica per un film interpretato dall’americano, ed erano poi arrivati a Londra nella speranza di continuare la loro attività con la CBS Records. Ma dopo il flop del singolo Reggae on Broadway prodotto dallo stesso Nash, le strade di Marley, Nash e CBS si erano divise, e gli Wailers si erano ritrovati in Inghilterra, a cercare qualche nuova via per fare soldi con la loro musica. Se non altro, per poter tornare a casa a Kingston, lontana almeno un migliaio di sterline – che non avevano.
L’incontro con Blackwell cambia questa storia, anche se non parte con il piede giusto: Bunny Wailer lo accusava di aver distribuito in Gran Bretagna alcuni loro dischi nel passato, senza riconoscere loro alcuna royalty. Una voce che Blackwell considerava priva di fondamento, ma che non avrebbe rappresentato certo un caso raro, nell’industria musicale di quei tempi (pare che tra i musicisti giamaicani circolasse un detto: “Se fai un disco, prendi 20 dollari. Se vende un milione di copie, prendi comunque 20 dollari”). Eppure, nonostante quel primo approccio non esattamente positivo, Blackwell sentiva di non potersi far scappare gli Wailers. Era il momento giusto.

Catch a Fire: il ruolo di Chris Blackwell

All'inizio degli anni Settanta, la musica giamaicana era ancora poco conosciuta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ma nel 1972 The Harder They Come, il film interpretato dal cantante giamaicano Jimmy Cliff e con una colonna sonora totalmente reggae, arrivava alla Mostra del Cinema di Venezia e diventava un cult. E poi c’era il successo della già citata Stir it up scritta da Marley per Johnny Nash… In più, lo stesso Jimmy Cliff aveva appena abbandonato la Island Records: gli Wailers, agli occhi di Chris Blackwell, erano sostituti perfetti. Lui non lo sapeva, ma sarebbero diventati qualcosa di molto più grande.
Blackwell finì per offrire a Marley e soci quattromila sterline, con cui gli Wailers sarebbero potuti tornare in Giamaica e incidere un album – oggetto non molto diffuso nel mercato discografico dell’isola, che era dominato dai singoli. Due mesi dopo, il fondatore della Island era a Kingston, davanti al negozio di dischi della Tuff Gong: poco più di un buco nel muro, gestito da Rita Marley. Rita lo accompagna dagli Wailers, che gli fanno sentire per prima Slave Driver. Un ascolto che Blackwell oggi descrive così: “Luce e oscurità, pesantezza e semplicità, piacere e dolore, amore e resistenza, una canzone rabbiosa e profondamente spirituale che ti prende di sorpresa. Una furia in agguato.” E non sappiamo quanto di vero ci sia, ma dice di essere stato lui a suggerire che una frase del testo di quella canzone diventasse il titolo dell’album.

Il resto è la cronaca dell’inizio di un successo che non sembrava dover arrivare neppure quella volta. Catch a Fire è stato infatti il primo passo della lunga strada internazionale di Bob Marley and The Wailers, ma Roma non è stata costruita in un giorno: l'album ha avuto scarso impatto sulle classifiche britanniche e ha raggiunto solo il n. 171 negli Stati Uniti. Però le recensioni sono state più che positive, e il primo seme del culto del reggae era stato gettato nelle orecchie degli ascoltatori occidentali. Oggi è difficile sopravvalutare l'importanza storica di Catch a Fire, prima pietra di una rivoluzione che continua: nell’aprile 2023, l’album è tornato tra le hit reggae di Billboard, al sesto posto. Al primo, come praticamente sempre negli ultimi quarant’anni, c’è Legend, di Bob Marley.

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