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L’anima nera del K-pop

Il saggio “Belli da Morire” racconta il lato oscuro dell’industria musicale coreana. Che continua a macinare successi, ma rischia di distruggere le sue stesse stelle

  • 8 novembre 2023, 10:52
  • 10 novembre 2023, 14:05
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  • Illustrazione di Vincenzo Filosa, tratta da "Belli da Morire"
Di: Michele R. Serra 

L’onda Hallyu è ancora altissima, e per capirlo basta ascoltare le notizie che arrivano dalla Corea. L’ultima in ordine di tempo: Jung Kook dei BTS ha pubblicato il suo primo album solista Golden, subito nella storia per essere l’album che ha venduto di più (oltre 2 milioni di copie) da quando esiste l’Hanteo Chart, classifica che monitora gli artisti K-pop a livello mondiale. Tra gli undici brani c’è il singolo Seven, il più veloce della storia a raggiungere 1 miliardo di stream su Spotify. Tra i produttori del disco Shawn Mendes, Dave Stewart degli Eurythmics e Ed Sheeran: come dire, generazioni diverse di grandi minatori dell’oro pop globale. Oro che del resto ritorna sia nel titolo che nel soprannome dello stesso Kook, “Golden Maknae”: il ragazzo d’oro. Il pop coreano è qui per restare: già all’inizio dell’anno era evidente a tutti, non serviva alcune arte divinatoria.
Ma è tutto oro, quel che luccica K-pop? Ovviamente no, e potevamo immaginarcelo fin dall’inizio – almeno chi non ha più vent’anni e conosce, ormai, il mondo. Però il racconto del lato oscuro del K-pop oggi è anche nero su bianco, grazie a un saggio in italiano tanto esauriente quanto appassionante. Difficile, invece, definirlo divertente.

Belli da morire è forse un titolo prevedibile, visto che la giornalista Giulia Pompili (che all’Asia ha dedicato gran parte della sua vita professionale, tra viaggi e ricerche) parte proprio dal racconto della morte che ha sconvolto il pop coreano nel 2019: quella di Sulli, idol arcifamosa in patria trovata morta nella sua casa. Sulli, è stato detto, si era tolta la vita perché non riusciva più a reggere la pressione: del lavoro, del successo, del denaro, certo. Ma soprattutto dell’odio che arrivava dai social network. L’origine di questo odio? Semplicemente, il fatto che aveva reso pubblica la sua relazione sentimentale. Belli da morire spiega con chiarezza questo meccanismo:

“Oltre alla pesa quotidiana, all’ossessione per il corpo statuario, per la pelle bianchissima e perfetta che deve sembrare seta, questa è un’altra regola non scritta del K-Pop e delle aziende d’intrattenimento, una tra le più crudeli e criticate: gli idol non devono avere relazioni. O almeno, devono fingere di non averle.”

Giulia Pompili, Belli da morire (Rizzoli Lizard)

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Per quanto possa apparire assurda e anacronistica, l’idea che sta dietro a una richiesta del genere è la stessa che dava forma all’immagine pubblica delle star hollywoodiane anni Cinquanta: primo, titillare solo implicitamente la fantasia del pubblico, lasciando immaginare a ogni fan di avere una possibilità, per quanto remota; secondo, presentarsi con un’immagine ipersessualizzata e virginale allo stesso tempo. Altrimenti detto: mai parlare di sesso. Rifiutare quel patto aveva aperto una voragine d’odio sotto i piedi di Sulli. Il suo caso non è peraltro unico, anzi: molte altre giovanissime star, appena meno famose di lei, si sono tolte la vita negli ultimi anni, da Goo Hara a Moonbin degli Astro, fino a Jong-Hyun, cantante degli Shinee. Nomi che non sono riusciti a superare di slancio le frontiere geografiche com’è successo a BTS e Seventeen, ma comunque pezzi importanti del mosaico dell’industria musicale coreana, che macina talenti e produce novità a getto continuo. Senza preoccuparsi di compromettere la salute fisica e mentale di ragazzi giovanissimi, inquadrati sin da adolescenti in un contesto assimilabile a quello militare, bullismo e nonnismo compresi.
Un metodo che comincia con le selezioni davanti ai manager delle grandi etichette, e continua (per i pochissimi che superano la prima scrematura) con un periodo di cosiddetto training intensissimo: due anni vissuti nella bolla delle accademie, dove gli adolescenti vengono addestrati a usare la voce, ma anche a controllare ogni aspetto della loro immagine – perfino le espressioni facciali. La cura del corpo in particolare diventa un’ossessione, tanto che disturbi del comportamento alimentare e abuso della chirurgia plastica sono solo due delle conseguenze più diffuse.

Dunque, musica pop o musica tossica? Senza dubbio – sottolinea Belli da morire – musica che riflette le contraddizioni della società coreana (simile del resto a quella di molti paesi occidentali): estremamente moderna, eppure ancora straordinariamente retrograda se si guarda alla parità tra i generi e all’atteggiamento nei confronti dell’omosessualità. In Corea infatti i movimenti religiosi, comprese quelle che si possono definire vere e proprie sette, hanno un’influenza fortissima, e rendono l’omosessualità un argomento tabù. Eppure gli stessi idol giocano con i riferimenti alla cultura LGBT, fino ad attirarsi l’accusa di queerbaiting. Che poi, a essere realisti, non sarebbe niente di nuovo: il K-pop è un’industria milionaria dell’intrattenimento moderno, che cerca di allargare il più possibile il suo pubblico e allo stesso tempo evitare di perdere il sostegno di ogni settore di fan (compresi quelli apertamente omofobi). Il business, come sempre, non è importante: è l’unica cosa che conta. Finché il business funzionerà così bene, sarà difficile vedere una rivoluzione progressista. E le star continueranno a essere create e distrutte, senza pensare alle conseguenze.

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La storia del K-Pop (1/10)

RSI Cultura 09.08.2023, 16:25

  • By Chick Sponder - http://kimsistermia.com/photos/4.jpg, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=22678822

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