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Queen, è tutto merito di Jimi Hendrix e Led Zeppelin

50 anni fa usciva il primo album di Freddie Mercury e compagni, ispirato dai grandi del rock dell'epoca. Un disco che non ha portato il gruppo al successo, ma gli ha insegnato come mantenersi vivi

  • 12 luglio 2023, 11:09
  • 15 settembre 2023, 11:51
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Di: Michele R. Serra

La sera del 29 gennaio del 1967, Jimi Hendrix suona sul palco del Saville Theatre di Londra. Tra il pubblico c’è un ragazzo di diciannove anni, chitarrista per passione, che rimane folgorato da quella esibizione: “Pensavo di essere abbastanza bravo, prima di vedere Hendrix” è la frase che sintetizzerà il suo ricordo della serata, negli anni seguenti. Anni in cui il giovane Brian May si dedicherà anima e corpo allo strumento. E forse non diventerà un nuovo Jimi Hendrix, ma senza dubbio si toglierà qualche soddisfazione.
La stessa notte, tra il pubblico c’è anche Freddie Bulsara: neanche un anno più vecchio, vive a un tiro di schioppo dalla casa di Brian a Feltham, sobborgo a sud-est di Londra. Quindi: stessa età, stesso posto, stessi gusti musicali, eppure i due non si sono mai incontrati. Le cose, anche in questo caso, cambieranno molto velocemente, in capo a poco più di cinque anni.
Brian May fonderà una band con il batterista Roger Taylor, gli Smile. Freddie Bulsara andrà a vedere un loro concerto. Alla fine raggiungerà i membri della band per far loro i complimenti, a modo suo. Qualcosa tipo: “Siete molto bravi, davvero. Ma perché vi vestite così? Secondo me avete bisogno di qualcosa di più. Avete bisogno di me.” E infatti.
Fast forward al 1973: gli Smile non esistono più, e i Queen mandano in stampa il loro primo album.
Per arrivare a quel punto, May, Taylor e Bulsara hanno cercato a lungo un bassista: come ricorda Mark Blake nella sua fondamentale biografia della band Is This The Real Life? prima c’è stato Mike Grose per tre mesi (“Mi ero unito ai Queen perché per un periodo non avevo niente da fare”), poi Barry Mitchell per sei (“Pensavo che quei tipi non sarebbero mai andati da nessuna parte”), poi Doug Boogie per un paio di concerti (“Non è che mi lamento delle mie scelte di vita: ho una casa grande, una famiglia meravigliosa e una bella macchina… ma ripensandoci, non sarebbe stato male”). Infine, nel 1971 è arrivato John Deacon, destinato a rimanere al suo posto per tutto il ventennio magico dei Queen. Anche per lui c’è una citazione: “Quando sono entrato nei Queen, beh, gli altri tre non facevano altro che discutere come pazzi. Io stavo ben attento a starne fuori.” Ma, dicevamo, l’importante non era come ci fossero arrivati, quale fosse stato il ruolo – seppure inconsapevole – di Jimi Hendrix, quanti universi paralleli esistano in cui i Queen hanno un altro bassista, o perfino un altro cantante. L’importante è che il 13 luglio 1973, esattamente cinquant’anni fa, usciva Queen dei Queen.

A dire il vero, se oggi lo consideriamo effettivamente un album importante, certo non si può dire che all’epoca siano stati in molti, ad avere la stessa sensazione. Certo, Rolling Stone aveva scritto – erano tempi in cui le recensioni contavano qualcosa, ricordiamolo – che i Queen erano seri pretendenti al “trono dei Led Zeppelin”, che come complimento non era certo male (anche se in quel periodo non tutta la stampa inglese vedeva Robert Plant e compagni come le divinità rock che effettivamente erano). Ma in generale, la reazione di critica e pubblico fu tiepida.
Eppure a riascoltarlo oggi Queen è senza dubbio un’anticipazione degli splendori che verranno, nonostante il vestito hard rock. Il suono epico e drammatico, la chitarra parlante, la voce di Bulsara nel frattempo diventato Mercury: dentro Queen c’è già tutto. Nonostante il disco sia stato messo su nastro in orari improbabili, per l’accordo stretto con i fratelli Sheffield, fondatori dei Trident Studios di Soho: loro avrebbero fatto da manager alla band, che in cambio avrebbe potuto registrare gratis nei momenti in cui lo studio non era occupato da altri musicisti. Non certo un accordo da star, vero, ma l’occasione di registrare là dove solo pochi mesi prima avevano preso forma i capolavori di Lou Reed (Transformer) e David Bowie (Hunky Dory) non si poteva rifiutare.

In effetti, ancora oggi Brian May lamenta la scarsa cura tecnica di quell’album, rispetto al lavoro ossessivo svolto sui dischi successivi. Ma per chi ama i Queen, è difficile non apprezzare un disco pieno di meraviglie: dalle chiare ispirazioni hard e progressive (oltre ai già citati Led Zeppelin, è difficile non sentire i Jethro Tul dietro i brani con testi para-fantasy scritti da Freddie Mercury come Great King Rat), all’arrabbiatissima Modern Times Rock’n’Roll opera di Roger Taylor, che appoggia sulle chitarre un ironico atto d’accusa contro l’industria musicale, alla breve strumentale Seven Seas of Rhye che poi sarebbe stata ampliata fino ai canonici tre minuti e trasformata in una vera canzone nell’album successivo. Per non parlare della dicitura “… and nobody played synthetizer” che concludeva lo spazio dedicato ai crediti, e che sarebbe rimasta incisa come un comandamento su tutti gli album successivi fino alla svolta “elettronica” di The Game.

Soprattutto, però, Queen contiene il primo singolo Keep Yourself Alive, pietra angolare della carriera della band non solo dal punto di vista musicale, con la lunga intro di chitarra che prepara il terreno per la voce di Freddie Mercury, ma anche da quello simbolico: un brano che contiene frasi come “Ora ti dicono/Che devi essere una super star/Ma io ti dico di accontentarti/Rimani dove sei” sembra perfetto per una band ancora sospesa tra grandi sogni e un successo che non arriva. Non stupisce che sia rimasto nella scaletta di ogni concerto, per il decennio successivo. Fino a quando accontentarsi non è stata più un’opzione praticabile per i Queen.

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