Che un film d'animazione possa essere dedicato a un pubblico adulto, non è una novità. Pensate a Persepolis, Valzer con Bashir, Anomalisa, o anche, per andare più indietro nel tempo, Fritz the cat. Per non parlare di tutti i film che l'animazione giapponese ha prodotto senza pensare certo ai bambini. Però quando esce un film Pixar (quindi Disney) che da qualsiasi parte lo giri non sembra qualcosa di pensato per un pubblico giovane, beh... in qualche modo è una rivoluzione.
Vero, la Pixar ha già parlato di temi adulti altre volte. Ma questa volta racconta la morte e il senso della vita, in un film che ha come protagonista un uomo tra i trenta e i quarant'anni, senza figli e in piena crisi di mezza età. Un film, per di più, pieno di jazz – che per carità, non vogliamo ragionare per sterotipi, ma non è proprio la musica preferita dei bambini. Almeno di solito.
Questo è Soul, l'ultima fatica del più importante studio d'animazione della storia hollywoodiana, quello che ha in curriculum una serie di capolavori paragonabili solo ai classici di Walt Disney. E che sembra ormai aver raggiunto un nuovo livello di consapevolezza: quasi senza più tenere conto del target, del pubblico ideale o medio, la Pixar appare impegnata a costruire un percorso poetico, un enorme mausoleo da lasciare ai posteri, ogni film un mattone di questo edificio d'importanza storica. A volte, questo intento diventa però una zavorra: i grandi capolavori della storia del cinema d'animazione sono di solito tali perché capaci di una superiore leggerezza, intesa nel senso in cui la intendeva Italo Calvino nelle sue Lezioni americane, tutt'altro che superficiale e al contrario estremamente precisa. Invece Soul sembra sempre sul punto di spiccare il volo, ma poi rimane ancorato alla stessa grandiosità del suo progetto.
Certo, la precisione a ben guardare non manca: ma rimane una precisione più tecnica che emotiva.
Stupisce la capacità di dare vita sullo schermo a due mondi tanto distanti quanto credibili: una New York realistica, densa e materica, e un aldilà etereo.
Stupisce la cura dei particolari, dalle luci del direttore della fotografia Bradford Young (reduce negli ultimi anni dai successi di Selma e Arrival) alle stesse mani del protagonista, che corrono sulla tastiera in modo mostruosamente credibile – e infatti sono ricostruite digitalmente su quelle di un vero pianista, il produttore di metà della colonna sonora Jon Batiste.
Stupisce la stratificazione delle ispirazioni che si riconoscono in ogni fotogramma, da Salvador Dalì a Osvaldo Cavandoli.
Eppure tutto alla fine si riduce a qualche lezione di filosofia pop, e a una morale che non è tanto diversa da quella che si ritrova in certi spot pubblicitari, dei fast food o della pasta: la vita è fatta di piccole cose, goditele.
Forse il problema è solo aver messo l'asticella tanto in alto: fosse un film d'animazione qualsiasi, diremmo che è un piccolo capolavoro. Invece è la Pixar che dichiara di voler superare se stessa, e se non ci riesce è un mezzo fiasco. Verrebbe da dire che la vita, più che di piccole cose, è fatta di aspettative.