Nel 2025, la Germania si trova in una crisi profonda. Gli istituti economici tedeschi stimano una crescita del PIL pari allo 0,1%, dopo il -0,2% del 2024 e il -0,4% del 2023. Tre anni di recessione tecnica che minacciano il modello industriale tedesco, un tempo motore dell’Europa. Eppure, il DAX vola. Le multinazionali esportatrici e i titoli tech-finance trainano la Borsa, disegnando una parabola che non riflette la realtà sociale.

Germania in crisi
Telegiornale 03.11.2025, 20:00
Come nota l’economista Marcel Fratzscher, presidente del DIW Berlin, «la Germania sta perdendo competitività, ma i mercati finanziari sembrano ignorarlo. È il segno di una disconnessione strutturale tra capitale e produzione». Il capitalismo tedesco non investe più in impianti, ma in buyback (ovvero i riacquisti di azioni proprie, espediente che è sintomo di un capitalismo che premia la rendita più della produzione). Non assume, ma automatizza. Non innova, ma ottimizza. Il valore non nasce dal lavoro, ma dalla volatilità.
Il sociologo Wolfgang Streeck lo aveva previsto: «Il capitalismo democratico è entrato in una fase di decomposizione. La Germania ne è il caso emblematico: crescita zero, disuguaglianze crescenti, istituzioni paralizzate». Il suo concetto di «capitalismo morente» si manifesta oggi in una società dove il lavoro si frammenta, le comunità produttive si dissolvono e la democrazia perde presa sulle logiche economiche.
Il lavoro, da sempre fondamento di identità e cittadinanza, si dissolve in forme intermittenti, invisibili, non sindacalizzabili. I sindacati faticano a intercettare il conflitto, mentre il governo affronta pressioni crescenti senza strumenti efficaci. Le politiche fiscali e gli incentivi non bastano. Il costo dell’energia, la transizione ecologica e la digitalizzazione mettono in crisi l’apparato industriale, soprattutto nelle regioni orientali.
Nel frattempo, il capitale circola. Le aziende non sono più entità stabili legate al territorio, ma nodi mobili in una rete globale. La rivoluzione logistica sta sostituendo la fabbrica con il flusso, il lavoratore con l’utente. La Germania, con la sua infrastruttura avanzata e la sua dipendenza dall’export, è particolarmente vulnerabile a questa mutazione.
Nel dibattito pubblico tedesco, la crisi si riflette in tensioni crescenti. I partiti populisti guadagnano consensi, mentre le forze tradizionali perdono presa. La crisi non è solo economica: è sociale, politica, culturale. E il 2025 rischia di essere l’anno in cui la Germania smette di essere il perno dell’Europa e diventa il suo punto di frattura.
Il paradosso è evidente: mentre il capitale finanziario prospera, la società si impoverisce. La disuguaglianza non è un effetto collaterale, ma una condizione strutturale. Il cittadino si trasforma in utente, il lavoratore in funzione, il conflitto in rumore. E la democrazia vacilla: non perché manchi il voto, ma perché manca il potere di incidere sulle logiche che governano la vita.
I dati recenti confermano questa disconnessione: nel secondo trimestre del 2025 il PIL è calato dello 0,3%, peggiorando rispetto alle stime iniziali. Le esportazioni sono scese dello 0,5% ad agosto, con un calo marcato verso l’UE e gli Stati Uniti (-2,5%), mentre le importazioni sono diminuite dell’1,3%. L’indice ZEW di novembre, che misura la fiducia degli investitori, è sceso a 38,5 punti, mentre la valutazione della situazione attuale resta negativa a -78,7. Il presidente dello ZEW, Achim Wambach, ha parlato di una fase «caratterizzata da un calo di fiducia nella capacità della politica economica di invertire la rotta». Anche i Wirtschaftsweisen, i consiglieri economici del governo, hanno rivisto al ribasso le previsioni per il 2025, parlando apertamente di stagnazione persistente e incertezza strutturale.
La Germania non è un’anomalia: è un’anticipazione. Un laboratorio del capitalismo mutante, dove il valore si sgancia dalla produzione e si rifugia nella finanza. Dove il benessere non coincide con la crescita. Dove il futuro dell’Europa si scrive nei grafici di Borsa.
Serve chiamare le cose col loro nome. Serve riconoscere che il conflitto non è più tra capitale e lavoro, ma tra capitale e società (e addirittura tra capitale ed economia). Tra rendita e redistribuzione.


