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La musica? Superata. Meglio il merchandising

Un tempo erano solo magliette, e pure di scarsa qualità. Oggi, tra edizioni limitate e cappellini da 50 franchi, è una delle principali fonti di guadagno per l’industria. E i cantanti diventano brand

  • 26 gennaio 2023, 13:26
  • 14 settembre 2023, 09:01
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  • Carsten Stiller

Chi ha inventato il merchandising musicale? Difficile a dirsi: molti però concordano nell’affermare che nasce insieme al rock, negli anni Cinquanta. Naturalmente, con le T-shirt: la prima maglietta celebrativa di un singolo concerto, concordano in molti, fu realizzata da un fan club di Elvis Presley nella seconda metà degli anni Cinquanta. Un’idea di cui promoter e case discografiche furono lesti ad appropriarsi nel decennio successivo, e che esplose negli anni Settanta con casi limite come quello dei Grateful Dead, al centro di un culto che non conosce fine: una t-shirt d’epoca oggi può valere diverse migliaia di dollari. Il gruppo di Jerry Garcia, così come altre star dell’epoca come Janis Joplin e Jimi Hendrix, faceva parte della scuderia di Bill Graham, un ex-soldato diventato promoter musicale – e un pezzo della storia del rock: era stato lui a spingere per la produzione delle magliette tie-dye con stampe di scheletri che da allora sono parte integrante dell’iconografia della band. Di storie da raccontare ce ne sarebbero molte, ma è il caso di guardare al presente, un’era in cui il merchandising non è più solo un contorno dell’evento musicale, bensì la prima fonte di guadagno per musicisti diventati brand. Andiamo con ordine.

(qualsiasi scusa è buona per rivedere questo live dei Grateful Dead del 1978)

Il rock è morto (e sepolto sulle magliette)?

Cominciamo con le grandi icone del passato musicale, che sono state frullate dal mercato e dall’epoca di internet, fino a essere liofilizzate in oggetti senza alcun peso culturale. Se un tempo i collezionisti giravano il mondo per ottenere una singola maglietta, oggi chiunque può trovare sugli scaffali di H&M una maglietta dei Nirvana o dei Metallica, anche senza aver mai ascoltato Nevermind o Master of Puppets. Capi che una volta erano simbolo di – perdonate la sintesi giornalistica – “ribellione giovanile”, oggi sono prodotti da operai sottopagati e venduti per quindici franchi a clienti a cui interessa copiare i look delle sorelle Kardashian. Se da una parte quindi molti nomi storici stanno vivendo una parabola triste, esiste una nuova generazione di star che ha rivoluzionato il modo di pensare al merchandising, riuscendo perfino a farlo entrare nel sistema-moda. E realizzando guadagni mostruosi. Non stupisce che gli artefici di questa rivoluzione commerciale siano stati gli artisti del mondo hip-hop, che rispetto alle generazioni precedenti hanno un rapporto più disincantato (eufemismo) con l’idea di vendere se stessi.

Travis Scott

Il merchandising musicale diventa moda

Nel 2022 ad esempio, Travis Scott ha riempito la O2 Arena di Londra per due serate consecutive (i suoi primi concerti dopo la tragedia del festival Astroworld, che aveva visto dieci persone schiacciate dalla folla). E nonostante i quarantamila biglietti venduti, la cifra più impressionante dello show rimane quella relativa al merchandising: un milione di dollari incassato, tra felpe, cappellini e – sì, esistono ancora – magliette. Il quotidiano londinese The Guardian ha chiosato: “con ricavi dello streaming così bassi da risultare quasi trascurabili e l’inflazione che rende meno sicuro il guadagno con i tour, il merchandising rappresenta il miglior ritorno finanziario per gli artisti”. E se questa frase si applica anche (e forse soprattutto) a musicisti meno popolari, sono soprattutto le megastar ad avere la possibilità di giocare a proprio piacimento con il mondo del merch. Lo stesso Scott ad esempio ha lavorato sulla metamorfosi da “semplice” rapstar a vero e proprio brand capace di collaborare con altri marchi commerciali, mettendo la firma su edizioni speciali di hamburger (McDonald’s), scarpe (Nike), e perfino profumi (Byredo). In questo modo, Scott e altri rapper (pensiamo a Lil’ Wayne, ma anche a Kanye West) sono riusciti ad allargare la loro proposta commerciale verso pubblici diversi, arrivando a colpire consumatori che non sono neppure interessati alla musica, ma allo stesso curiosamente disposti a spendere 150 franchi per una loro felpa.

(un giovane collezionista di merchandising di Travis Scott mostra i suoi ultimi acquisti)

Sono più importanti i cappellini, o la musica?

Ancora più interessante è il fatto che il merchandising sia divenuto un traino per la vendita della musica stessa: prendendo sempre Travis Scott come caso di scuola, il rapper ha venduto più di 500.000 equivalenti ad album nella prima settimana di lancio del suo Astroworld, nel 2018. Tuttavia, quello che veniva effettivamente venduto era un pacchetto: merchandising accompagnato da un download digitale dell'album. Scott e il suo team avevano escogitato un piano ingegnoso: ogni giorno veniva presentata una mini-collezione composta da una ventina di articoli, poi dopo 24 ore il sito si aggiornava e spuntavano nuovi portachiavi, posacenere, magliette, felpe e giacche, mentre quelle vecchie sparivano. Ogni acquisto comprendeva l'accesso alla prevendita dei biglietti per i concerti e un download di Astroworld, ma si può sostenere senza timore di essere smentiti che il prodotto più importante non fosse la musica, bensì – tanto per fare un esempio – magliette disegnate in collaborazione con Virgil Abloh, stilista del marchio Off-White, che diventavano istantaneamente oggetto da collezione e venivano rivendute a cifre doppie o triple rispetto al prezzo iniziale. In alcuni casi estremi, insomma, il cliente finale poteva essere convinto non dalla musica e neppure dal merchandising stesso, ma solo dalla prospettiva di un rapido profitto. E anche se un’affermazione del genere appare in effetti apocalittica, non si può negare che la trasformazione del musicista in marchio porti con sé simili rischi. Ammesso che di rischio si tratti.
Negli anni Novanta chi voleva criticare i gruppi considerati “venduti” li chiamava "T-shirt band", sottintendendo che il loro merchandising fosse più popolare della loro musica. Oggi un tale insulto non avrebbe più senso. I musicisti si occupano sempre meno della loro credibilità, e sempre più dei conti. Potrebbero non avere torto, visto che la tecnologia (tra streaming malpagato e pirateria non pagata) e la congiuntura economica (aumento dei costi che riduce i margini dei live) rosicchiano ogni giorno di più i loro guadagni. Non stupisce che molti si siano preoccupati, quando palazzetti, teatri e sale da concerto hanno iniziato a chiedere una fetta anche dei ricavi derivanti dal merchandising venduto a margine dei concerti. Spesso non si tratta di una fetta piccola: dal 20 al 35 percento, quindi fino a un terzo del ricavo totale.
Se davvero i musicisti rischiano di essere scippati anche dell’ultima gallina dalle uova d’oro rimasta nel music business, lo scopriremo solo nei prossimi anni.

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