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The Ballad of Darren, l’eterno ritorno del Britpop

Mentre tutti sembrano avere voglia di revival anni Novanta, il nuovo album dei Blur ci ricorda che il tempo è passato, e che il Britpop non passerà mai

  • 26.07.2023, 11:02
  • 14.09.2023, 09:03
Blur
Di: Michele R. Serra 

Vi ricordate l’estate del 1995? In caso di risposta negativa – in fondo, sono passati quasi trent’anni – vi basti sapere che è stata la stagione in cui il britpop era la musica, almeno per chi voleva divertirsi. Nell’agosto del 1995, le case discografiche di Oasis e Blur fecero uscire nello stesso giorno i nuovi singoli delle band più vendute non solo in Inghilterra, ma in mezzo mondo.
Dietro i due nomi più noti avanzava un’onda di musica pop meravigliosa, con gruppi come Suede e Pulp che ne rappresentavano la cresta più spumeggiante. La prima metà degli anni Novanta li aveva incoronati re, e anche se si definivano rockstar (meglio non discutere su questo termine con gente come Liam Gallagher, tanto per citarne uno a caso), il loro approccio era quintessenzialmente pop: melodie che piantavano le tende nei padiglioni auricolari di chi ascoltava, già al primo incontro; ironia e assurdità; malinconia, certo, ma raramente tragedia. Era difficile non notare la distanza tra le due sponde dell’Atlantico: mentre negli Stati Uniti i primi Novanta erano ostaggio della depressione cosmica del grunge – che pure ci ha portato meraviglie disperate come quelle suonate da Alice in Chains e Nirvana – l’Inghilterra preferiva volgere le orecchie verso un pop di provincia strano e divertente, dove essere fighi significava avere gli occhiali spessi, i denti storti e mangiare fish and chips. E certo, molti dei ragazzi che avevano formato quelle band erano figli di famiglie che prendevano il sussidio di disoccupazione, tuttavia la loro musica rimaneva sfacciata e tutt’altro che lamentosa, quasi priva di autocommiserazione. Nessuno di loro, né ora, né allora, si opporrebbe apertamente a Kurt Cobain per aver scritto cose come “mi odio e voglio morire”: semplicemente, non era quello il mood. Come tutti i grandi movimenti musicali, anche il britpop finì gentrificato nel giro di pochi anni, e i ragazzi di provincia si trasferirono nel centro di Londra, a fare festa nella Cool Britannia tra fiumi di cocaina: Alex James dei Blur dice di averne consumata, nel breve giro di tre o quattro anni, l’equivalente di circa mezzo milione di sterline. Per narice.
Inevitabile insomma che la spinta del britpop si sia esaurita, e che quell’estate, artisticamente parlando, sia finita. Però forse è arrivato il momento del grande ritorno.

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L’ultimo anno infatti ha visto andare in stampa i nuovi dischi di Suede e Noel Gallagher, mentre Pulp e Blur mettevano a segno sold-out giganteschi negli stadi inglesi: i secondi, nientemeno che a Wembley. Liam Gallagher intanto continua a portare in giro le canzoni degli Oasis davanti a folle oceaniche. Qualche critico in Inghilterra ha commentato che il ritorno di fiamma degli inglesi nei confronti del Britpop fosse prevedibile, vista la congiuntura politico-economica: un governo conservatore in via di archiviazione, una sinistra di centro pronta a prenderne il posto, una crisi economica che potrebbe (anche se qui siamo nell’ambito delle previsioni ottimistiche) trasformarsi in occasione per una nuova crescita. Non so dire se sia un’ipotesi plausibile, ma sono abbastanza certo di due cose: la prima è che alcune caratteristiche del Britpop dei Novanta sono perfette anche per il 2023, a partire dal black humour; la seconda è che, se non altro, abbiamo tra le mani un nuovo disco dei Blur che potrebbe essere il loro migliore – naturalmente dopo quelli che sono per definizione inarrivabili.

Iniziamo dal titolo e dalla copertina.
The Ballad of Darren sembra dedicato a uno dei tanti uomini qualunque usciti dalla penna di Damon Albarn negli ultimi tre decenni – pare che Darren sia stato uno dei nomi più comuni in Inghilterra tra i Settanta e i Novanta – invece il riferimento è preciso: Darren “Smoggy” Evans è lo storico bodyguard che ha accompagnato i Blur per gran parte della loro vita artistica, e che dalle nostre parti è noto soprattutto per aver rimpiazzato Alex James nella storica esibizione in playback a Sanremo 1996, quella in cui la band si trovò dimezzata, e mentre James fu sostituito dal figurante Smoggy, per Graham Coxon la band optò direttamente per un cartonato a grandezza naturale. Darren è anche l’uomo che ha sempre assillato Damon Albarn affinché terminasse un vecchio demo del 2003, che ora è diventato The Ballad, apertura dell’album - e una delle molte canzoni d'amore che possono essere lette come dedicate alla stessa band dal leader.

La copertina appare positivamente didascalica, dopo aver ascoltato The Ballad of Darren la prima volta: un uomo nuota in una piscina azzurrissima, mentre nel cielo di fronte a lui la tempesta si avvicina e un mare nero si increspa di onde. Il messaggio è chiaro, ed è lo stesso delle canzoni: il tempo passa, il tempo si mette al brutto, i tempi non ci offrono alcuna certezza, ma nel frattanto possiamo vivere tempi interessanti.

The Ballad of Darren è un disco divertente e malinconico, che parla di successo mondiale e isolamento personale, di droghe e di guerra, d’amore e crisi di mezza età. È il prodotto del genio musicale di Damon Albarn, uomo da inserire definitivamente nella cortissima lista dei giganti del pop inglese: con David Bowie? Paul McCartney? Sì, non è una bestemmia. Albarn ci ha messo le sue diverse anime: il sex-symbol che faceva innamorare le ragazze dei Novanta, lo sperimentatore postmoderno dei Gorillaz, l’intellettuale che firma opere teatrali, il cantautore umanista del supergruppo The Good, The Bad & The Queen, più altre quattro o cinque che sicuramente sto dimenticando. La sua chimica con Graham Coxon appare ancora incredibilmente intatta, affinata dagli anni passati insieme, migliorata dal tempo come i formaggi che il sobrio Alex James del 2023 produce nella sua fattoria dell’Oxfordshire.
Tha Ballad of Darren è un disco incredibilmente riuscito, per essere arrivato così tardi nella carriera di una band. Impossibile che sia l’ultimo, c’è da augurarselo. E non è una questione di nostalgia.

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