Storia

Don Milani e la “Lettera ai giudici”, 60 anni dopo

Nel 1965 il presbitero ed educatore risponde ai cappellani militari e finisce sotto processo; nasce un testo cardine della pedagogia civile e dell’obiezione di coscienza.

  • Oggi, 08:00
  • Oggi, 09:14
don-milani-510-a_2206435.jpg
Di: Leonardo Marchetti  

18 ottobre 1965, don Lorenzo Milani è un prete malato, isolato, confinato a Barbiana. Ma è anche un uomo che non può tacere. Quando venti cappellani militari in congedo firmano un comunicato in cui definiscono l’obiezione di coscienza un «insulto alla Patria» e una «espressione di viltà», lui risponde con una lettera pubblica. Lo fa in nome della verità, della Costituzione e del Vangelo. Lo fa come maestro e come sacerdote ed è proprio per questo che sarà processato (e assolto) per apologia di reato. La sua difesa – Lettera ai giudici – diventa una pagina esemplare di pedagogia civile, un manifesto sul senso profondo dell’educare, ma anche un documento di tensione evangelica e profezia civile che, a distanza di sessant’anni conserva, intatta la sua potente capacità di parlare a ogni cittadino e a ogni cittadina.

La società italiana di quegli anni si trova in un momento di passaggio complesso e carico di contraddizioni, attraversata da tensioni profonde e spaccature ideologiche, culturali e sociali. La Guerra Fredda è in pieno svolgimento – il Vietnam bruciava da dieci anni – e detta le coordinate del confronto politico, irrigidendo le istituzioni e generando un clima di sospetto verso ogni voce dissenziente. La scuola pubblica è ancora rigidamente classista e l’obiezione di coscienza non è riconosciuta; i giovani che rifiutano la leva obbligatoria sono di conseguenza puniti con la prigione. Nel frattempo, la Chiesa cattolica conserva un ruolo dominante nel tessuto culturale del Paese, ma inizia a confrontarsi con le trasformazioni innescate dal Concilio Vaticano II (1962-1965).

In questo scenario si inserisce la figura di don Lorenzo Milani (Firenze, 1923-1967), sacerdote scomodo e radicale, formatosi in un ambiente borghese e intellettuale, ma approdato a una scelta pastorale tra le più radicali del Novecento italiano

Chiesa_di_Barbiana_(Vicchio)_(cropped).png

Chiesa di Sant'Andrea a Barbiana (Vicchio), di Horcrux92, CC-BY-SA-4.0.

Dopo gli studi in seminario e l’esperienza a San Donato di Calenzano, viene mandato a Barbiana, frazione montana del comune di Vicchio, nel Mugello toscano, una piccola parrocchia priva di tutto, dove decide di fondare una scuola per i ragazzi provenienti da famiglie contadine e operaie, spesso esclusi dal sistema scolastico tradizionale e destinati all’emarginazione sociale. La sua sarà una scuola senza orari, senza vacanze, immersa nella vita e nella scrittura, in cui ogni gesto quotidiano diviene parte del curriculum educativo. È Lorenzo stesso a descriverci la sua scuola:

La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. (Lorenzo Milani, Lettera ai Giudici, in L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani, LEF: Firenze 1965, p. 31)

Già il suo libro Esperienze pastorali (1958), che conteneva riflessioni acute sulla missione ecclesiale e sull’educazione popolare, era stato ritirato dal Sant’Uffizio per le sue tesi scomode. Don Milani non considerava il fare scuola un’occupazione alternativa al sacerdozio, ma l’espressione più piena della vocazione cristiana. Per lui, educare era un sacramento, un modo di toccare le anime attraverso la parola, la lingua, strumento di emancipazione, di coscienza, di libertà. Un’educazione che andava ben oltre i banchi, perché includeva la responsabilità, la verità, la tensione verso l’altro. Il suo obiettivo era dopotutto non solo religioso, ma genuinamente civile.

Nel dopoguerra, mentre l’Italia discuteva di analfabetismo e si avviavano i primi corsi serali per adulti, Milani iniziava a comprendere che la vera evangelizzazione passava per la lingua: senza gli strumenti per comprendere, nessun messaggio cristiano poteva davvero attecchire. A Calenzano e poi a Barbiana, la scuola popolare nasceva come risposta a un bisogno radicale di giustizia e proprio la scuola di Barbiana divenne una comunità educativa senza cattedra né orari, dove si studiava per dodici ore al giorno, tutti i giorni dell’anno, dove si praticava il mutuo insegnamento e si educava all’essenzialità e alla parola. Un’esperienza capace di trasformare i ragazzi in cittadini, e la scuola in una palestra di vita pubblica.

Don_Milani_1959.jpg

Oliviero Toscani, gennaio 1959, Don Lorenzo Milani insieme ai suoi studenti di Barbiana, da L’Espresso, Dominio Pubblico.

È in questo contesto che si colloca L’obbedienza non è più una virtù (LEF: Firenze 1965), scritto da Lorenzo e ripubblicato nel marzo del ’65 su “Rinascita”, settimanale (inizialmente un mensile) del Partito Comunista Italiano, in risposta diretta al comunicato firmato dai venti cappellani militari in congedo apparso sul quotidiano toscano “La Nazione” il 12 febbraio 1965. Scriveva Milani: «Si può e si deve obbedire solo a leggi che si sentono giuste. E per poterle sentire giuste bisogna averle discusse, capite, scelte». Ogni riga è attraversata da una tensione educativa: non una difesa ideologica, ma un appello alla coscienza critica dei giovani, alla loro capacità di distinguere tra autorità e autoritarismo. 

Lobbedienza_non_è_più_una_virtù.jpg

Copertina dell'edizione originale della raccolta dei documenti del processo di don Lorenzo Milani edita col titolo "L'obbedienza non è più una virtù" dalla casa editrice "Libreria editrice Fiorentina".

Quando Lorenzo Milani viene denunciato alla Procura della Repubblica di Firenze da un gruppo di ex combattenti, offesi dai toni e dal contenuto del suo scritto, egli non fugge, si espone ancora una volta. Troppo malato per essere presente al processo che ne seguì (un tumore che lo avrebbe vinto meno di due anni dopo), affida la sua difesa alla Lettera ai giudici, scritta con i suoi allievi di Barbiana. Una difesa che non sarà solo personale ma collettiva, civile, etica.

«Signori Giudici», esordisce, «vi metto qui per iscritto quello che avrei detto volentieri in aula». Chiarisce subito che parla come sacerdote e come maestro, perché nella sua scuola di Barbiana non si insegna solo a leggere e scrivere, ma a comprendere il mondo, a pensarlo criticamente, a intervenire. Anche nella scelta di rispondere pubblicamente ai cappellani si compie, secondo Milani, un atto educativo:

Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare. Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. È l’unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi. (Lorenzo Milani, Lettera ai Giudici, in L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani, LEF: Firenze 1965, p. 34)

La Lettera è anche una presa di posizione netta contro l’equivoco tra legalità e giustizia. Per Milani, la legge è degna solo se è giusta, se protegge il debole, e la scuola deve insegnarlo, deve formare cittadini capaci non solo di rispettare la legge, ma di migliorarla. «La scuola siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi», scrive. Lì si forma il cittadino: non l’esecutore, ma il legislatore di domani.

La scuola è per lui «monarchica nel metodo, democratica nel fine»: chi insegna guida, ma non impone; conduce, ma non domina perché l’insegnante è un profeta che legge i segni del tempo:

Il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i ‘segni dei tempi’, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso. (Lorenzo Milani, Lettera ai Giudici, in L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani, LEF: Firenze 1965, p. 37)

E il segno dei tempi, negli anni Sessanta, è un’umanità ancora prigioniera di dogmi, classismi, discriminazioni. Uno stato di cose cui la scuola di Barbiana reagiva educando alla libertà responsabile, al discernimento, al coraggio delle idee. In sostanza un’educazione politica, sì, ma nel senso più profondo e nobile del termine: polis, bene comune.

La Lettera ai giudici, forse meno nota della celebre Lettera a una professoressa del 1967, ne rappresenta tuttavia il rigoroso fondamento etico, la premessa, mostrando quella stessa tensione esplosiva tra istituzioni e coscienza, tra legalità e legittimità, tra educazione e trasformazione. Non è un testo facile, la Lettera ai giudici, non cerca consensi. È invece esigente, severo, profondamente politico, una decisiva chiamata alla responsabilità individuale:

[si deve] avere il coraggio dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto. (Lorenzo Milani, Lettera ai Giudici, in L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo di Don Milani, LEF: Firenze 1965, p. 51)

Nel corso dei decenni, l’eredità di Milani è stata oggetto di fortune alterne. C’è chi lo ha demonizzato come un agitatore populista (come Sebastiano Vassalli), chi lo ha accusato di aver contribuito allo sfascio della scuola (come Cesare Segre), e chi ne ha fatto un santino inoffensivo, un pretino di campagna dalle idee originali. Milani, invece, resta una pietra d’inciampo, uno ‘scandalo’ che interroga ancora oggi le pratiche educative e con esse la stessa funzione civile ed etica della scuola.

«La scuola come la vorrei io non esisterà mai», scriveva Lorenzo Milani con disincantata lucidità a Nadia Neri. Il suo non poteva e non doveva essere un modello replicabile quanto invece una testimonianza e al contempo una visione. Una visione fondata su tre convinzioni: che la scuola è strumento di giustizia sociale, la lingua è strumento di libertà e l’educazione un atto di amore e di lotta.

Ai giorni nostri, Lettera ai giudici non è un testo da commemorare ma da interrogare, un manifesto ancora aperto, che chiede di essere continuato e integrato, aggiornato. È un testo che ci obbliga a pensare alla scuola come a un laboratorio democratico in cui progettare il cambiamento attraverso l’educazione all’uguaglianza e alla libertà di allievi e allieve che nella fatica dello studio quotidiano trovano loro stesse/i in quanto soggetti pensanti, pienamente responsabili di tutto ciò che li circonda.

Soltanto così la scuola può continuare a sedere «fra il passato e il futuro», come scriveva Lorenzo Milani; ed è lì, su quel filo sottile, tra ciò che è già e non ancora, che si gioca la speranza del futuro dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, una speranza che sa di democrazia e che Milani ha indicato con parole semplici, ma forti: I care, ‘mi sta a cuore’, l’esatto contrario di ogni indifferenza, di ogni individualismo, di ogni egoismo. Di ogni cieca superficiale obbedienza.

26:35

Ritratto di Don Milani

RSI Cultura 24.05.2023, 09:05

Ti potrebbe interessare