Storia

L’attacco del 7 ottobre giustifica a tutt’oggi l’azione di Israele?

Il dibattito infiamma il mondo politico e culturale, investendo la coscienza individuale e collettiva. A confronto le opinioni di Pietro Montorfani e Giuseppe Giannotti

  • 11 giugno, 13:56
  • Ieri, 10:52
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Manifestanti con bandiere di Israele e della Palestina, Rathausmarkt di Amburgo, Germania, 05.06.2025

  • IMAGO
Di: Red.  

Il conflitto israelo-palestinese è tra i più lunghi e complessi della storia contemporanea, oggetto di un dibattito quotidiano e sempre più polarizzato. I due testi che seguono, espressione di visioni opposte, ne sono una chiara dimostrazione: ciascuno riflette un punto di vista fortemente personale, ma profondamente radicato nell’esperienza, nella sensibilità e nella coscienza dei rispettivi autori.

Da un lato Pietro Montorfani - dottore di ricerca in Scienze storiche e letterarie - presenta una riflessione sofferta e anche autocritica, che parte dal riconoscimento del diritto di Israele a esistere e a difendersi, che poi si interroga anche sul prezzo umano pagato, sul senso della memoria, sull’empatia selettiva e sul rischio di assuefazione morale. Dall’altro Giuseppe Giannotti - giornalista, socio e portavoce dell’Associazione Svizzera-Israele, sezione Ticino - si adopera nella denuncia contro ciò che egli percepisce come una narrazione a senso unico, respingendo le semplificazioni e accusando i media occidentali di alimentare un antisemitismo travestito da solidarietà condizionata.

Due prospettive che esprimono la complessità del presente e sollecitano una riflessione profonda su cosa si intenda oggi per giustizia, memoria e verità.

Gaza e noi (il futuro e il peso della memoria)

di Pietro Montorfani

Chi scrive ha sempre sostenuto – e sostanzialmente continua a farlo – il diritto di Israele a difendere il proprio territorio e la propria popolazione. Questo senza dimenticare la fragilità delle premesse che ne hanno determinato la nascita, a partire dal movimento sionista tardo-ottocentesco fino all’istituzione vera e propria di uno Stato ebraico nel maggio del 1948, a scapito soprattutto della popolazione palestinese, con tutto il corredo di sensi di colpa determinato all’epoca dalla memoria ancora fresca della tragedia della Shoah. I torti e le ragioni, le forzature ideologiche e i bracci di ferro diplomatici e militari che ne sono seguiti, nella forma di una lunga guerra parcellizzata che dura da decenni, non cancellano il fatto che indietro non si torna e che una soluzione andrà trovata, prima o poi, tenendo in considerazione i diritti e le esigenze di tutti. Nessuno infatti toglierà il disturbo come per magia, anche se taluni forse lo desiderano.

Un diritto alla difesa di Israele dunque esiste (deve esistere), tanto più dopo il 7 ottobre 2023, un attacco di tale ferocia anche simbolica – il tentativo di annientamento dell’altro, la sua scomparsa dalla faccia della terra – da giustificare almeno inizialmente una dura rappresaglia nei confronti di Hamas. Nei mesi successivi all’attentato terroristico ho avuto occasione di parlarne su questi canali, e privatamente nell’ambito di istituzioni ebraiche, dove si fa memoria delle vittime dell’Olocausto, avanzando timidamente il dubbio che ci fosse comunque il rischio di uno zelo difensivo. Ma la preoccupazione, allora come oggi, stava anche nel risorgere dell’antisemitismo in ogni parte del mondo, con lo spettro dei drammi che ben conosciamo. Dopo l’attentato di quell’autunno, di fronte ai corpi trucidati di chi aveva la sola colpa di essere ebreo, Israele si è ritrovato in mano una wild card che doveva e poteva giocare al meglio: per portare a casa gli ostaggi, per raccogliere attorno a sé il massimo consenso internazionale possibile, e sul lungo periodo per tornare a difendere nei fatti quei valori democratici con i quali da tempo si identifica (almeno sulla carta).

Nonostante queste mie solide convinzioni, ho firmato ben due appelli pubblici in favore del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e per una più ferma presa di posizione della Svizzera – io che in genere, per indole, tendo a rifuggire simili iniziative – e sono stato a un passo dallo scendere in piazza lo scorso 24 maggio a Bellinzona. Che cosa è dunque successo nel frattempo, nel breve volgere di un anno e mezzo, per spingermi a una simile correzione di rotta? È forse venuto meno lo shock del 7 ottobre? Sono diventato più selettivo nelle mie sensibilità umanitarie? Sono stato allettato da altre sirene?

La domanda credo sia giusto porsela, così come è giusto partire dalla propria esperienza personale, perché la questione di Gaza tocca tutti nel profondo. Tocca la nostra visione del mondo e la nostra capacità empatica, tocca il nostro giudizio storico e – per fortuna – incrina le nostre certezze, se possiamo dire di averne ancora. Sarà che sono sempre stato molto legato alle mie, di certezze, come Manzoni scriveva di donna Prassede («Con le idee [...] si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata», I promessi sposi, cap. 25), ma ho l’impressione di essere giunto troppo tardi alle “illuminazioni” di questi ultimi giorni, perché distratto da questioni più urgenti (cosa ci sarà poi di più urgente del grido di dolore di migliaia di bambini) e perché affetto da quella anestesia morale che tocca sempre di più la nostra società, ovunque, nei confronti di tutto e tutti. Se siamo onesti fino in fondo non possiamo negare infatti di sentirci, a volte, come il protagonista del Freddy Nettuno di Les Murray, la cui pelle era stata resa insensibile dalla prima delle tragedie novecentesche, il genocidio degli Armeni. I drammi successivi, nel libro, gli scivolano di dosso quasi fossero acqua.

Nel mio piccolo, lavorando oramai da tre anni a pochi metri da chi si occupa di rifugiati ucraini, presso il centro cantonale di accoglienza della Salita dei Frati, avevo messo un pezzo di cuore sul tavolo di quella tragedia, così vicina alla nostra sensibilità di europei, e così prossima agli ultimi conflitti fratricidi del Continente, quelli dei Balcani. Avere sotto gli occhi tutti i giorni madri e bambini malinconici, anziani malati, uomini sradicati dalle loro case, mi autorizzava a quella preferenza. O forse no?

L’affacciarsi della catastrofe di Gaza nel mio orizzonte privato, entro il perimetro un po’ asfittico del mio limitato cono visivo, si deve naturalmente all’insistente copertura mediatica, oltre che allo stimolo e al suggerimento di alcuni amici (Matilde, Aurelio, Roberto, Massimo e via tutti gli altri); ma anche al progressivo venire meno, all’affievolirsi di quel momento puntiforme del tempo che è stato il 7 ottobre: più si allontana, più le ragioni con cui tentiamo di giustificare oggi la quotidiana uccisione di civili inermi perdono consistenza. La memoria, se gestita correttamente, permette infatti al lato più umano di noi di emergere oltre la superficie dell’indifferenza; al contrario, se considerata in modo granitico, come se fosse scolpita per sempre nei ricordi di ciascuno, non può fare altro che perpetuare l’astio dei torti subiti, rendendo di fatto impossibile immaginare un futuro diverso dalla realtà attuale. Ne sa qualcosa proprio la società balcanica, in cui il ricordo costantemente rinfrescato della sconfitta della Piana dei Merli (Kosovo Polje, 28 giugno 1389) nutre ancora oggi le frange più estremiste dei giovani nazionalisti, a sei secoli e mezzo di distanza. Israele non è esente da questo rischio – ricordo personalmente il disagio davanti a frotte di ragazzotti armati inneggianti al sacrificio-suicidio degli Zeloti, sull’altipiano di Masada, dicendosi pronti a fare altrettanto – ma temo che anche sull’altro lato, presso le nuove generazioni di palestinesi, il pericolo dell’odio che nutre sé stesso sia altrettanto vivo e radicato.

È possibile crescere nella Striscia di Gaza e non diventare terroristi, come recita un celebre adagio attribuito a Giulio Andreotti? Preferisco pensare di sì. Per renderlo possibile, però, dobbiamo non soltanto esprimere tutto il nostro dissenso nei confronti di questa nuova carneficina, alzando la voce con coraggio, ma dobbiamo anche evitare di dare manforte a quei sentimenti di rivalsa, di resistenza e di vendetta che da troppi decenni contribuiscono ad alterare la nostra percezione, invitandoci ad esempio a desiderare una globalizzazione dell’Intifada e ripetendo, come fanno in troppi dentro e fuori le università occidentali, gli stessi identici slogan che nutrono gli animi dei terroristi.

Lontani come siamo dall’epicentro di quella tragedia, corriamo il rischio di percepirla soltanto come una lontana eco, ma abbiamo anche il grande vantaggio di poterla leggere in filigrana senza il peso della sua memoria storica. Siamo insomma nella condizione migliore per restare lucidi, dicendo “sì sì no no” – come suggerisce un monito evangelico – alle proposte e agli stimoli che l’attualità internazionale ci mette sotto gli occhi tutti i giorni, e cercando di tenere ben salda al centro del discorso pubblico l’insostituibile unicità di ogni essere umano cui è dato in sorte calcare a fianco a noi questa stessa terra tormentata.

L’ossessione anti-israeliana e la verità negata

di Giuseppe Giannotti

La questione palestinese pare essere diventata oggi nel Mondo, e anche in Svizzera, il primo problema mondiale. Ogni manifestazione di protesta diventa occasione per urlare slogan contro Israele, contro gli ebrei, facendo riemergere un antisemitismo che sta assumendo proporzioni spaventose.

Sì, perché più che una difesa del popolo palestinese, sembra prendere forma essenzialmente un odio antisraeliano, quasi un’ossessione. Israele, per chi lo contesta, è il male assoluto. Si urlano slogan “dal fiume al mare”, chiedendo in pratica la distruzione di Israele, si acclama a una “Palestina libera”, si chiede la fine dei bombardamenti, ma da nessuna parte viene chiesto il rilascio degli ostaggi israeliani in mano ai terroristi di Hamas da quasi 600 giorni. E nessuno capisce che se Hamas rilasciasse gli ostaggi oggi e smettesse di lanciare razzi contro Israele, l’assedio israeliano terminerebbe subito.

Già perché la crisi di Gaza nasce da quanto accaduto il 7 ottobre 2023, quando migliaia di terroristi di Hamas hanno fatto irruzione nel Sud di Israele uccidendo oltre 1200 israeliani nel modo più spietato: genitori davanti ai figli, figli davanti ai genitori, hanno squartato donne incinte. Di tutto ciò ci sono i video girati dagli stessi terroristi. Inoltre hanno rapito oltre 250 persone, tenendole in condizioni di prigionia terribili, alcuni chiusi in gabbie, come animali, ai quali veniva buttato un po’ di cibo ogni tanto, altri chiusi nei tunnel al buio, per mesi, altri uccisi dopo un mese di prigionia, come i bimbi Ariel e Kfir Bibas, di 10 mesi e 4 anni, con la loro mamma Shiri, strangolati a mani nude.

Israele ha presentato un filmato su quel giorno al Parlamento europeo, e fra chi lo ha visto, molti si sono sentiti male, sono svenuti, hanno vomitato, tanto le immagini erano terribili. E dei 250 rapiti, in parte sono stati scambiati con prigionieri palestinesi (in rapporto di un ostaggio ogni 100 prigionieri palestinesi... normale?) mentre 56 sono ancora nelle mani di Hamas, 21 dei quali si ritiene siano ancora vivi. Con Hamas che rifiuta ogni trattativa per una tregua e per il loro rilascio, speculando anche sui cadaveri, sapendo quanto sia importante per gli ebrei dare degna sepoltura ai propri morti.

Altro capitolo, le vittime civili. Ci si chiede se il massacro del 7 ottobre giustifica la reazione di Israele. La risposta è molto semplice. Dipende tutto da Hamas. Israele sta solo cercando di avere indietro i propri ostaggi e di evitare che Hamas continui a lanciare missili contro il territorio israeliano. Si citano migliaia di morti da parte palestinese, ma non ci sono dati certi. Quello che è certo è che Hamas non si cura della propria gente. E nessuno si meraviglia che i propri leader continuino a sostenere che più morti ci sono da parte palestinese (lo definiscono il sangue dei martiri) e meglio è perché così si mette in cattiva luce Israele di fronte all’opinione pubblica mondiale.

Capitolo aiuti umanitari. Israele ne aveva bloccato l’ingresso perché finivano nelle mani di Hamas, che prendeva gli alimenti e li rivendeva al mercato nero, finanziando le sue attività terroristiche. Riguardo gli aiuti, con il supporto degli Stati Uniti, Israele ha organizzato la distribuzione gratuita di alimenti ai palestinesi in nuovi centri raccolta, contro il volere di Hamas, che perde i profitti del cibo che sequestra e dunque cerca di boicottare l’iniziativa creando disordini, dimostrando di fregarsene del benessere della propria gente. E così diffonde notizie di spari israeliani sulla popolazione in attesa di ricevere gli aiuti, di morti, cose false, come dimostrano ore di video registrate da telecamere di sorveglianza, che mostrano la distribuzione del cibo. Ma anche in questo caso i media riportano le false notizie di Hamas, alimentano l’odio verso Israele, mentre la realtà è che dal 27 maggio sono stati consegnati in grande quantità beni di prima necessità ai palestinesi. E fa specie che 55 ex ambasciatori del Dipartimento federale degli affari esteri hanno inviato al ministro degli Esteri Ignazio Cassis una lettera aperta nella quale, fra l’altro, anche loro invitano la Svizzera a rifiutare qualsiasi collaborazione con la Gaza Humanitarian Foundation, gestita dagli Stati Uniti. “Il suo sistema di distribuzione di generi alimentari - dicono - non è conforme ai principi di neutralità, trasparenza e indipendenza delle Nazioni Unite”. Per loro è meglio affidare tutto ad Hamas... Che vergogna questi 55 ex ambasciatori!

E a proposito di fame e di notizie false, giorni fa il diplomatico britannico Tom Fletcher, vicesegretario generale dell’Onu e coordinatore delle missioni di soccorso di emergenza nel mondo, in un’intervista alla BBC aveva detto che «senza un flusso massiccio di aiuti umanitari a Gaza, altri 14 mila bambini palestinesi potranno morire di fame nelle prossime 48 ore». Ebbene la BBC ha poi chiarito che il dato era un’errata interpretazione di un rapporto ONU, che parlava di malnutrizione grave i cui sintomi si sarebbero potuti sviluppare, senza aiuti, nell’arco di un anno. Dunque era una fake news, ma riportata da tutti i giornali con titoli enormi, e da tutte le organizzazioni umanitarie.

Parliamo degli ospedali di Gaza, usati da Hamas come centri di comando e deposito di armi. La verità è che quelli presi di mira da Israele non sono più ospedali, i malati sono stati evacuati. Così come le scuole, anche quelle dell’Onu. Non ci sono studenti, non ci sono lezioni. Sono edifici usati da Hamas per nascondersi. E quante volte viene fornita la versione di Israele, che sostiene di aver smantellato cellule di Hamas all’interno di ex ospedali ed ex scuole? Mai. E proprio Mohammed Sinwar, fratello del leader di Hamas, Yahya Sinwar, ucciso lo scorso ottobre, è stato a sua volta ucciso, assieme ad altri leader di Hamas, in un tunnel che partiva a fianco dell’Ospedale Europeo. Israele ha rilasciato foto e video che lo dimostrano.

Ultima considerazione, dedicata ai finti pacifisti che si battono per Gaza e ignorano altri conflitti in corso con milioni di morti, dal Sud Sudan alle guerre civili in Yemen, Siria, Libia, Etiopia. Ma di quelle popolazioni poco importa perché non c’è di mezzo Israele... Secondo l’Arab Center for Research and Policy Studies di Washington, fra il 1994 e il 2020 i finanziamenti umanitari destinati ai palestinesi (3 milioni e mezzo di abitanti in Cisgiordania, 2 milioni a Gaza) hanno raggiunto la cifra di 40 miliardi di dollari, 110 volte superiore a un cittadino del Paese più bisognoso al mondo, il Burundi (oltre 13 milioni di abitanti, di cui 450 mila profughi e 60 mila bambini soffrono di malnutrizione vera).  E così per il Sud Sudan, falcidiato da una guerra civile, e per almeno altri 10 Stati africani devastati da siccità, epidemie, dittature e sanguinosi conflitti. Ma ai pacifisti di casa nostra questo non importa...

02:29

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