Più soldati, ma soprattutto più armi. I bilanci delle difese, sotto la spinta del conflitto ucraino, sono esplosi. Un’analisi dell’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (SIPRI) ha rivelato che lo scorso anno i 100 maggiori produttori di armamenti hanno registrato vendite per quasi 680 miliardi di dollari, con una crescita del 6%. La metà di questa cifra va ascritta ad aziende statunitensi, seguite da Cina (13%), Regno Unito (8%), Russia (5%) e Francia (3%). In Europa, le 26 maggiori aziende produttrici di armi hanno visto il loro fatturato aumentare del 13%, raggiungendo i 151 miliardi di dollari. A Modem tre ospiti hanno approfondito il tema, con opinioni anche divergenti, soprattutto sul rapporto tra armi e pace.
Per Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa, “vista la situazione geopolitica e lo scenario più pericoloso e complesso non è una sorpresa che l’industria bellica europea stia crescendo più velocemente. L’Europa ha marciato finora in ordine sparso, ma si sta cercando di porre rimedio con iniziative, ad esempio, come l’European Defence Fund, per favorire programmi congiunti ed eventualmente anche consorzi. Tutto sommato si sta cercando di rimediare a questa tradizionale frammentazione. Nei Paesi più esposti alla minaccia russa c’è poi un senso di urgenza che viene soddisfatto tendenzialmente con commesse e forniture americane. Pensiamo alla Polonia che ha fatto il pieno di acquisti americani, sudcoreani o israeliani. La stessa Germania che, pur avendo un’industria forte in particolare nel settore terrestre e della subacquea coi sottomarini, ha comprato moltissimo dagli USA. Ricordiamo gli F-35, gli elicotteri Chinook e gli aerei pattugliatori marittimi P-8”.
L’Europa ha però ordinato così tanto che i libri delle commesse sono pieni e l’industria non riesce a produrre abbastanza. “La domanda - conferma Lorenzo Scarazzato, ricercatore del SIPRI e coautore del rapporto sui maggiori produttori di armi - non viene soddisfatta dalle industrie domestiche per la sua totalità e si stanno accumulando questi ordini. Di conseguenza Paesi, come la Polonia, che hanno necessità a breve termine tendono a comprare ‘off the shelf’, dove c’è disponibilità immediata. Viene preferita la velocità allo sviluppo di industrie domestiche. È anche vero che in Europa, dato il restringimento dei budget militari dopo la guerra fredda, non c’è stato un mantenimento dell’industria delle armi. Solo nel 2024 le aziende hanno cominciato ad ampliare le proprie linee di produzione”.
Nella lista dei 100 principali fabbricanti di armi gran peso hanno Stati Uniti, Cina, Regno Unito, Russia e Francia. In pratica i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Seppur paradossale in questa presenza c’è “una logica che - secondo Luca Baccelli, professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Camerino - esprime la struttura intrinsecamente diseguale delle Nazioni Unite. I cinque Paesi, come vincitori della seconda guerra mondiale, sono i garanti della pace. Nella Costituzione delle Nazioni Unite c’è insomma il riconoscimento che contano i rapporti di forza per mantenere la pace. Poi sappiamo come è andata, il diritto di veto dei membri permanenti si è trasformato in una sostanziale impunità”.
Ma più armi non significa più sicurezza, sottolinea con forza Baccelli, che ricorda un altro aspetto, quello finanziario: “Tra i produttori di armi, oltre ai Paesi citati, c’è la società italiana Leonardo, addirittura al 12° posto, con un aumento del fatturato del 10%. Leonardo valeva 8 miliardi a fine del 2024, oggi ne vale 27. Oltre alla dimensione produttiva, c’è quindi anche una dimensione finanziaria. La produzione bellica è probabilmente la principale bolla speculativa in atto. Pronta a sostituire quella dell’intelligenza artificiale quando questa scoppierà. Più armi riducono la sicurezza? Beh, vi do una notizia le armi servono a uccidere e sostituiscono le spese in altri ambiti”. L’esperto di filosofia del diritto, oltre a ricordare che “la spesa in armi significa tagli in particolare in tutta la dimensione dello stato sociale”, definisce la corsa agli armamenti: “Una regressione culturale, che si è consumata in questi decenni e che è stata particolarmente accelerata a partire dall’aggressione russa all’Ucraina. Si tratta cioè dell’incapacità di vedere le relazioni internazionali in termini diversi che quelli delle posture militari e del confronto armato. Ecco, credo che su questa linea si arrivi alla terza guerra mondiale”.
Una visione che non trova concorde il direttore della Rivista Italiana Difesa. “Mi limito a ricordare - ha detto Batacchi - che la terza guerra mondiale, ovvero il confronto tra Unione Sovietica e Stati Uniti è stato scongiurato grazie alle armi nucleari. Su questo concordano universalmente tutti gli analisti di relazioni internazionali strategiche, cioè la paura della mutua distruzione assicurata ha di fatto scongiurato un enorme conflitto”. Tornando al presente, Batacchi condivide il fatto che “non necessariamente più armi, significano più sicurezza. Quando però le posture deterrenti sono credibili e autorevoli, ci sono meno probabilità che un avversario sia incentivato ad attaccarti o a contestare i tuoi interessi di sicurezza internazionali che non necessariamente coincidono con la protezione fisica del territorio”. La sicurezza di un Paese, continua, non si esprime solo in termini di armi ed ha una dimensione molto più vasta: “C’è la sicurezza degli approvvigionamenti energetici, la libertà di poter commerciare con gli altri. Il problema ora non è chi ci può attaccare, ma chi può mettere a repentaglio i valori democratici su cui si fondano le nostre comunità. Oggi si parla di guerra cognitiva, guerra ibrida di manipolazione delle sfere cognitive. Ad esempio, è un grosso problema che in Italia, secondo una ricerca dell’OSCE, il 30% della popolazione sia analfabeta funzionale perché quello è un terreno ideale per la manipolazione e la disinformazione”.
Oltre a questi, interviene il professor Baccelli, “c’è un problema di sicurezza informatica legato alla nostra dipendenza dalle quattro-cinque mega aziende basate negli Stati Uniti che hanno letteralmente in mano le nostre informazioni. Si può provare a fare qualcosa? L’Unione Europea ci sta provando. Forse bisognerebbe fare di più”.






