Franco Fabbri
Jukebox 900

28.04.19 Franco Fabbri: musica processuale e minimalismo (3./4)

di Claudio Farinone

  • 28.04.2019
  • 1 h
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Dai primi anni Sessanta del Novecento agli anni Novanta

Franco Fabbri, musicista e musicologo italiano, insegna storia della popular music al Conservatorio di Parma e all’Università Statale di Milano. Alcuni suoi libri come: “Il suono in cui viviamo” e “Around the clock” descrivono con grande perizia ed efficacia mondi sonori, in parte indagati nelle quattro puntate di Jukebox 900 in cui sarà ospite, al microfono di Claudio Farinone.

Gli argomenti sono solo apparentemente disparati: in realtà, non solo per le coincidenze cronologiche (gli anni Venti e Trenta per i primi due, gli anni Sessanta e Settanta per i secondi).

Il rebetico è una musica popolare urbana ellenica, giunta a drammatica popolarità negli anni successivi alla grande catastrofe di Smirne del 1922-23, con l’espulsione dalla Turchia di un milione e mezzo di greci ortodossi, quando la Grecia aveva poco più di sei milioni di abitanti. Nelle baraccopoli delle periferie urbane, fra gli immigrati, si sviluppò un genere di canzoni che esprimevano miseria, disperazione, ma anche una speciale gioia di vivere.

Niente di più diverso dalla raffinatezza e dal lusso delle canzoni dei musical di Tin Pan Alley e dei loro autori “classici”: Kern, Gershwin, Porter, Rodgers e altri. Ma negli anni Cinquanta e Sessanta, mentre l’epoca d’oro di Tin Pan Alley tramontava, il rebetico fu al centro di un progetto di “canzone popolare d’arte”, dal quale si sviluppa la canzone d’autore greca contemporanea.

Il minimalismo, che nasce nello stesso periodo come risposta anche polemica alla musica d’avanguardia europea, incorpora non poche influenze dalle musiche orientali, inclusa la fascinazione per i metri musicali additivi, “zoppicanti”, che erano uno dei tratti più riconoscibili del rebetico. E, a sua volta, la musica minimalista e processuale di Riley, Reich, Glass, lascia non poche tracce nel progressive rock inglese dei primi anni Settanta, preso, se vogliamo, da una poetica “massimalista” volta a incorporare qualunque cultura musicale, pur mantenendo una solida matrice rock.

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