Che P. Diddy fosse una figura losca dello show business si vociferava da decenni. Che fosse una pessima persona è stato chiaro a tutti guardando il video in cui prendeva a calci e pugni la sua allora fidanzata Cassie Ventura nella hall di un hotel. Ma quello che emerge dal documentario Netflix Sean Combs – The Reckoning è roba da un catalogo di orrori. La docuserie Netflix in 4 episodi, diretta da Alexandria Stapleton e prodotta da 50 Cent è uscita il 2 dicembre ottenendo quasi 22 milioni di visualizzazioni nei primi 6 giorni. Un lancio esplosivo che l’ha collocata al secondo posto della Top 10 (dopo il colosso Stranger Things) e confermato come scandali e rivalità nell’hip hop hanno ancora una forte attrattiva sul pubblico globale.
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Quattro Quarti 06.12.2025, 20:00
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L’autogoal involontario
The Reckoning mostra materiale inedito girato prima dell’arresto, quando Combs aveva assunto un videomaker per seguirlo 24 ore su 24. L’intento era ribaltare la narrativa negativa, ma il risultato è un autoritratto involontario di paranoia e delirio di onnipotenza. Lo vediamo discutere con i suoi avvocati su come neutralizzare la stampa, chiamare vecchie collaboratrici per sostenerlo pubblicamente, distribuire abbracci e sorrisi ai fan per le strade di New York per poi chiedere disinfettante per le mani e dichiarare di voler fare una doccia al perossido. Più che un piano di riabilitazione mediatica, il risultato è un reality autodistruttivo della sua già delicata immagine pubblica.
Tupac e Biggie: le accuse dure a morire
Il documentario riporta testimonianze che riaccendono vecchie teorie del complotto mai sopite. Secondo l’audio di un interrogatorio del 2008 fatto a Duane “Kefe D” Davis - ufficialmente accusato di omicidio di primo grado per la sua partecipazione nella sparatoria che uccise Tupac Shakur - Combs avrebbe offerto un milione di dollari per l’eliminazione del rapper rivale e di Suge Knight. Una cifra che, secondo il testimone, non sarebbe mai stata versata.
Non meno inquietante è la ricostruzione della morte di Christopher Wallace, alias The Notorious B.I.G. L’ex socio di Combs, Kirk Burrows, racconta di rivalità interne, di copertine di Rolling Stones rubate, di contratti che andavano rinnovati e di scelte strategiche che avrebbero esposto Biggie a rischi enormi. Dopo la morte di Tupac, infatti, era stato intimato ai membri della Bad Boy Records di non recarsi a Los Angeles. P. Diddy ignorò l’avvertimento e annullò persino un viaggio promozionale di Biggie a Londra, convincendolo a rimanere in città per dimostrare di non aver paura dei rivali della Death Raw. Pochi giorni dopo, il rapper viene assassinato. Secondo Burrows, persino lo sfarzoso funerale tenutosi a New York e organizzato da Combs sarebbe stato finanziato con i soldi del defunto e non con quelli dell’etichetta come tutti pensavano. Successivamente, P. Diddy appare sul palco degli MTV Music Award lanciando l’iconico brano I’ll Be Missing You (dedicato al “suo migliore amico”) che lo lancia nell’olimpo del rap. Una sequenza di eventi che lascia aperti interrogativi pesanti sulla genuinità del rapporto con B.I.G e la sua responsabilità indiretta nella sua morte.
Violenza e abusi: il cuore del racconto
Il nucleo più disturbante del documentario non sta nelle faide rap (che tutti conoscevano), ma nelle testimonianze dirette di chi ha subito violenze e abusi. Ex protetti, escort e collaboratori raccontano episodi di coercizione, droghe somministrate a loro insaputa e veri e propri stupri. Una ex assistente personale descrive un clima di terrore quotidiano, mentre un produttore musicale afferma di essere stato drogato e abusato sessualmente, oltre a non essere mai stato pagato per il suo lavoro. Il mancato pagamento degli artisti appare essere il leitmotiv: per soggiogarli e controllarli, spesso P. Diddy li pagava meno del dovuto o non li pagava affatto. Queste testimonianze delineano un quadro di violenza sistematica e sfruttamento, in cui il potere economico e mediatico di Combs veniva usato come arma per ridurre al silenzio le vittime. Non si tratta di gossip o di rivalità artistiche, ma di accuse gravissime che mettono in discussione l’intera cultura di impunità che ha circondato il magnate per decenni.
I giurati: imparziali o fan?
Uno degli aspetti più discussi dopo l’uscita del documentario riguarda la percezione del pubblico sul ruolo dei giurati. Nonostante non vi siano prove che la giurata intervistata fosse effettivamente una fan di Puff Daddy, l’impressione diffusa è che alcuni membri della giuria potessero essere stati influenzati dalla notorietà dell’artista o da un atteggiamento di simpatia nei suoi confronti. Questa percezione ha alimentato ulteriori dubbi sull’imparzialità del processo e ha contribuito a spiegare, agli occhi dell’opinione pubblica, un verdetto giudicato da molti come eccessivamente indulgente.
50 Cent, il rivale che diventa produttore
A rendere il tutto ancora più complesso è il fatto che il documentario sia stato prodotto da Curtis Jackson, alias 50 Cent, storico rivale di Combs. Jackson non ha mai nascosto il suo disprezzo per il collega e ha dichiarato apertamente che tacere avrebbe significato legittimare comportamenti inaccettabili nella cultura hip hop. Certo è che 50 Cent sia conosciuto per la sua indole estremamente vendicativa. Curtis si è assicurato di rilasciare un’intervista con l’ABC Station - una delle poche emittenti visibili nelle carceri - per essere certo che P. Diddy la vedesse. Non sono poi mancati tutti i meme e reel ironici condivisi dal rapper sui suoi canali social. D’altronde, Eminem ci aveva avvertiti «È meglio avere 50 Cent come amico che come nemico».
Che le sue intenzioni siano state mosse da genuina indignazione o da vendetta personale è irrilevante: The Reckoning è un prodotto che inchioda Combs alle sue responsabilità e che, al di là delle motivazioni del produttore, offre un racconto potente e disturbante. In questo caso, la vendetta personale si è trasformata in un atto di denuncia pubblica che ha dato voce a chi per troppo tempo era rimasto nell’ombra.
Una resa dei conti culturale
Il documentario non è solo un atto d’accusa contro un uomo. È un colpo durissimo alla cultura hip hop, che si trova costretta a fare i conti con le proprie ombre. Per anni, la figura di P. Diddy è stata celebrata come simbolo di successo e resilienza. Oggi, quelle stesse qualità appaiono come strumenti di manipolazione e abuso.
La domanda che emerge è inevitabile: quanto la comunità musicale ha chiuso gli occhi di fronte a comportamenti inaccettabili? E quanto la cultura dell’impunità ha permesso a Combs di agire indisturbato?




