Basta pronunciare il nome di alcuni registi per visualizzare di fronte ai propri occhi interi mondi. Mondi abitati da personaggi con determinati atteggiamenti, archi narrativi e stili d’abbigliamento. Mondi composti da architetture caratteristiche e da colonne sonore che costruiscono stati d’animo. Mondi che si guardano attraverso precise inquadrature e movimenti di camera, realtà che vivono in specifici spazi e luoghi.
Ecco, Wes Anderson è forse uno degli autori contemporanei che rappresenta al meglio, in modo più diretto e a un pubblico estremamente vasto, questo tipo di regista.
In molti hanno definito Asteroid City - presentato in concorso a Cannes a maggio 2023 - come l’ennesimo film che Wes Anderson realizza in puro stile Wes Anderson, concludendo che ormai il regista è imprigionato in se stesso, vittima del suo successo, stanco al punto da non riuscire ad immaginare nulla di nuovo se non l’ennesimo lavoro con un cast stellare e un’incredibile paletta di colori. Tutto vero, in un certo senso. La comitiva di grandi attori e attrici c’è e l’estetica è un omaggio “rafforzato” al cinema, ai fumetti e alla fantascienza anni ’50 ma dopo la visione del film non può non farsi strada la sensazione di aver visto qualcosa che sembra “un altro film di Wes Anderson” ma in realtà, sotto sotto, non lo è.
Un po’ di onestà e uno sguardo meno stizzito (per quanto legittimo) ci farebbe capire che il regista - e il suo pubblico - è più che altro l’ennesima “vittima” del consumismo e non tanto del suo personale immaginario. Siamo stati bombardati di Wes Anderson in questi anni, un costante attacco visivo e sonoro da cui è difficile trovare riparo, soprattutto viaggiando. Libri più o meno ufficiali hanno mappato interi continenti alla ricerca di edifici che richiamano la sua estetica, locali e bar in tutto il mondo sono stati disegnati a immagine e somiglianza dei suoi set, caffetterie e negozi hanno riproposto all’infinito moodboard sonore derivate direttamente dai suoi film. E poi ancora scarpe alla Steve Zissou, tappezzerie alla Tenenbaum, imballaggi alla Grand Budapest Hotel. Ci sono persino mostre a lui dedicate, come quella che ha appena aperto alla Fondazione Prada di Milano. Quello che un tempo era una marchio distintivo, un recupero intelligente e rivisitato di un’estetica retrò, uno stile inconfondibile, ora è l’ennesimo elemento divorato, digerito e rigurgitato dalla macchina del consumo, che va a svilire anche l’originale. Un meccanismo che ha certamente giovato alle tasche del regista ma che ci ha reso stanchi - o peggio: immuni - al suo incredibile estro creativo.
Accantonata la sbrigativa obiezione estetica - azione che dovrebbe permetterci di gustarci al meglio quest’ennesima ambientazione studiata in ogni dettaglio, con i suoi colori saturi da sembrare un Technicolor alla Via col vento su un fondale di un cartoon Warner Bros. - Asteroid City resta sì un’opera “stancante” in quanto poco immediata, strutturata a incastri e con vari piani di lettura, ma certamente non è frutto della mente di un autore “stanco” e imprigionato. Anzi, Anderson sembra avventurarsi in qualcosa di nuovo per i suoi standard.
Asteroid City è un minuscolo villaggio sperduto nel deserto dove un meteorite ha lasciato un cratere gigantesco, unico elemento che potrebbe attirare visitatori sul posto insieme ad un concorso dedicato a talenti emergenti nel campo della (fanta)scienza. In questo luogo dove la gente tendenzialmente non si ferma si ritrovano inaspettatamente bloccate diverse persone, molte di loro accorse proprio per assistere all’attribuzione del premio per cui concorrono cinque brillanti ragazzini. Al centro della trama due genitori: Augie, interpretato da Jason Schwartzman, fotografo di guerra che non riesce a dire ai suoi quattro figli che la loro madre è morta da settimane, e Midge, famosa star del cinema impersonata da Scarlett Johansson, costantemente intenta a provare scene, battute e ruoli. Tutto questo in realtà è una sorta di pièce teatrale e lo apprendiamo subito, non è un colpo di scena, e le linee narrative da seguire sono anche di più. Ad accoglierci a inizio film infatti è Bryan Cranston, che si rivolge a noi come se fossimo un pubblico televisivo, introducendo l’autore dello spettacolo teatrale (Edward Norton) e punteggiando la pellicola aprendo parentesi sul dietro le quinte della pièce, sulla creazione della sceneggiatura, sulla scelta degli attori in una scuola di recitazione, addirittura sulle pause durante la presunta rappresentazione. Gli stessi personaggi e gli stessi attori che li interpretano non capiscono il significato dello spettacolo, eppure continuano a raccontare la storia.
Asteroid City mette a dura prova perché utilizza uno stile che crediamo di aver imparato a leggere - quello del regista più instagrammabile di sempre - per fare un discorso che è solo in apparenza complicato nel suo parlare della realtà e dell’esistenza. In verità non fa altro che descriverle entrambe proprio per quello che sono: un piano su cui coabitano in egual misura caos e ordine, routine e schianti di meteoriti, dolori indescrivibili che forse non possiamo superare ma a cui spesso riusciamo a sopravvivere.
È un film che sicuramente ragiona sull’arte e sulla finzione ma è soprattutto un film sulle cicatrici e sulla loro inevitabilità, sul nostro ostinarci a credere che ognuna di esse sia ingiusta e inspiegabile quando in realtà la ferita è un elemento certo della vita.
Asteroid City è pieno di cicatrici: tre puntini sulla retina di una scienziata che voleva guardare le stelle e che si chiede se pentirsi o meno di non aver fatto figli, un ciuffo mancante di capelli asportato dalla scheggia di un ordigno sulla testa del protagonista che ha perso la moglie, un finto livido sotto l’occhio di un’attrice che ha incontrato molti uomini violenti, un cratere che permane silenzioso in mezzo al deserto.
Ascoltare il cinema - Wes Anderson e Alexandre Desplat
RSI Cultura 11.11.2021, 10:53