Cinema

Datemi un horror, ma che sia elevato

"Scream" non lo voleva girare nessuno e il cinema dell'orrore era la pecora nera di Hollywood

  • 18.02.2022, 09:57
  • 14.09.2023, 09:19
Scream
Di: Michele Serra 

“Voglio uscire dal ghetto dell'horror”. Marianne Maddalena, produttrice della newyorchese Dimension Films, ha sentito queste parole nel 1995 dalla viva voce di Wes Craven, regista-icona di una generazione (una, fino a quel momento: poi ne avrebbe aperta un'altra, ma ci arriveremo). Il creatore di Nightmare e Le colline hanno gli occhi aveva riassunto in quello che oggi si direbbe lo spazio di un tweet tutto il suo disagio per la mancanza di riconoscimento che affliggeva un intero genere cinematografico: i critici, quelli seri (...), non tenevano in grande considerazione l'horror.

Ovvio, si tratta di una generalizzazione: già alla fine degli anni Sessanta, l'uscita di La notte dei morti viventi aveva attirato il plauso di Kenneth Turan, che della critica americana è oggi uno dei grandi vecchi (ai tempi era un'arbasiniana giovane promessa), mentre Variety liquidava la pellicola come “un'orgia di sadismo senza limiti” (perdonatemi se divago, ma: che nostalgia per i tempi in cui stampa e critica avevano potere contrattuale, e il direttore di Variety era “l'uomo più odiato di Hollywood”).
Nonostante queste eccezioni, si può dire senza timore di smentite che l'horror sia stato considerato per decenni cinematografia di serie B, e portare come prova la mancanza quasi assoluta di Oscar assegnati ai film del genere: se si escludono le categorie tecniche, i riconoscimenti dell'Academy si contano sulle dita di una mano, e l'unico ad aver vinto il premio come miglior film a oggi è Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme.

Ma torniamo a Craven e Maddalena, a quella loro conversazione di metà Novanta.
Certo il regista aveva ragione quando parlava di ghetto, e si può facilmente comprendere il suo desiderio di frequentare altri generi, dopo essere stato portato al successo proprio dall'orrore. Tuttavia, rifiutare la proposta che la produttrice aveva appena formulato sarebbe stato uno dei peggiori errori della sua vita professionale: Marianne Maddalena aveva messo sul tavolo la sceneggiatura di Scream, scritta dal neanche trentenne Kevin Williamson.

La ricostruzione fatta dallo stesso Williamson ci racconta che l'idea per quella storia gli venne mentre stava guardando – solo in casa, una sera – uno speciale televisivo sui serial killer. Durante una pausa pubblicitaria, aveva notato una finestra spalancata in cucina. Una finestra che non ricordava di aver aperto. Forse era solo suggestione, ma Kevin pensò fosse buona norma prendere dalla credenza un coltellaccio da macellaio e telefonare a un amico, per avvisarlo che stava esplorando la casa in cerca di un possibile intruso. Che ovviamente non c'era, se non nella sua immaginazione, amplificata dalla narrazione televisiva e dai tanti mostri visti al cinema nell'arco di una vita. Per un attimo, aveva avuto l'impressione di trovarsi dentro uno di quei film a lui familiari: li conosceva e amava, ma questo non gli impediva di avere paura. Così, aveva cercato di catturare quella sensazione in un racconto.

Racconto tanto riuscito da far cambiare idea a Wes Craven, che dopo ripetute letture accettò di dirigere il film. Senza immaginare che quell'horror – al di là del pur straordinario successo commerciale – avrebbe rivoluzionato il genere e dato il via al movimento che l'avrebbe portato fuori dal ghetto.

Prima di Scream, l'elettroencefalogramma dell'horror era pressoché piatto. Passati i fasti degli anni Settanta e Ottanta, nessuno sembrava più girare film dell'orrore sorprendenti. Senza sorpresa, senza novità, diventava sempre più difficile rispettarne gli obbiettivi fondamentali: scioccare, inorridire e disgustare usando una scatola di attrezzi narrativi e visivi, che includono riferimenti al soprannaturale, al mostruoso, al sangue, alla morte, all'oscurità, all'ignoto, all'anormale. L'idea di Williamson per rianimare il genere era di usare proprio quegli schemi ricorrenti per mettere in piedi un gioco metanarrativo ironico e – ovviamente – il più spaventoso possibile.

Una scelta del genere intercettava lo spirito di tempi in cui le pratiche di analisi dei media erano ormai estremamente diffuse: alla fine del ventesimo secolo, per ogni film (come per ogni libro, disco, trasmissione televisiva, perfino spot pubblcitario...) scorrevano già fiumi di inchiostro. Ogni mezzo espressivo – e ogni genere all'interno di questi mezzi – aveva sviluppato un'autocoscienza sempre maggiore, e tendeva sempre più spesso a citarsi addosso. L'intero sistema delle comunicazioni di massa parlava con insistenza dei propri contenuti e delle proprie strategie di narrazione.

L'horror, nel suo piccolo, era pronto: i decenni precedenti avevano in qualche modo educato una nicchia di pubblico a riconoscere e comprendere i meccanismi tipici del genere, fino a renderla complice. Registi e sceneggiatori come Craven (che già aveva girato un primo meta-horror come Nightmare: Nuovo incubo) e Williamson sapevano che gli spettatori avrebbero avuto la capacità di andare oltre il godimento superficiale, ingenuo e un po' infantile, con cui ancora la critica sembrava descrivere quel cinema. E per carità, Scream non è esattamente un campionario di raffinatezze (dipende sempre cosa si intende per “raffinato”), ma rappresenta comunque un salto evolutivo, un segno di raggiunta consapevolezza delle potenzialità di un genere.

I centosettanta milioni di dollari incassati da Scream nel 1996 rappresentavano l'ennesima prova della profittabilità del genere horror, certo. Ma ancora più importante era il suo modo di procedere post-moderno, capace di affascinare una nuova generazione di spettatori. Non è un caso che una ventina di anni dopo, quegli spettatori ormai cresciuti siano a loro volta divenuti autori di una nuova ondata di horror di altissima qualità.
I titoli li conosciamo: The Witch di Robert Eggers, Madre! di Darren Aronofsky, It comes at night di Trey Edward Shults, It follows di Robert Mitchell, Get out! di Jordan Peele, Hereditary di Ari Aster... la lista potrebbe continuare, ma sono questi i film che hanno rimesso il genere al centro della discussione. E ne hanno fatto nascere un'altra, tanto fastidiosa quanto necessaria.

Dopo quegli exploit cinematografici degli anni Dieci infatti, è iniziato a circolare tra i critici americani il termine “elevated horror”: una categoria che segnalava una nuova fase per il genere, finalmente maturo. Gli horror non sono più diversivi per adulti-bambini che si divertono con mostri e violenza, sembrava dire chi usava il termine, chiarendone immediatamente il sottinteso snob: l'etichetta di semplice horror non poteva essere applicata a film di tale qualità, era necessario inventarsene un'altra. Sembrava di essere tornati agli anni Novanta pre-Scream, quando le case di produzione rifiutavano le intervista a riviste specializzate nel genere, e pubblicizzavano le loro pellicole come “thriller” per cercare un posizionamento più alto. Ecco dunque la dicitura “elevated horror”, quando proprio non si può evitare di usare quel nome; altrimenti, ci sono sempre eufemismi come “dark fantasy” (spesso usato, ad esempio, per il cinema di Guillermo del Toro) o l'ancora più improbabile “dark thriller”. La verità è ovviamente quella più semplice: che il genere horror è sempre stato, come qualsiasi altro, punteggiato di pellicole “elevate”, dal Nosferatu di Murnau a Psycho, Non aprite quella porta, Shining... Tuttavia, se il termine può essere utile al marketing per vendere idee nuove a un pubblico più ampio, e ancora di più a sceneggiatori e registi per convincere le case di produzione a finanziare progetti freschi, ben venga.

L'importante è che siano chiare un po' di cose.
Che l'horror – a qualsiasi aggettivo si accompagni – nel ventunesimo secolo ha dimostrato di essere una delle poche vere forze innovatrici rimaste nel cinema occidentale.
Che i grandi studios guardano con sempre maggiore favore alle produzioni di quel genere. Che il ghetto ha aperto le sue porte al mondo. Che non finiremo mai di ringraziare, post mortem, geni forse sottovalutati in vita, come Wes Craven.

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