Cinema

La ballata di Limonov è un’occasione persa

Il film di Kiril Serebrennikov, ispirato al bestseller di Emmanuel Carrère, che racconta la storia del controverso poeta russo, danza e corre ma resta sul posto

  • 22 maggio, 09:35
  • 22 maggio, 09:49
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Di:  Chiara Fanetti 

“Stranger than fiction”, più strano della finzione. La vita di Eduard Savenko è un buon esempio per quest’espressione. Un’esistenza che è stata tutto e il contrario di tutto, mantenendo, non si sa come, una strana e inspiegabile coerenza.

Nato nel 1943 a Dzeržinsk, cresciuto nella città ucraina di Char’kov, morto nel 2020 a Mosca, il russo Limonov - suo nome d’arte - in 77 anni di vita riassume gli aspetti estremi di un paese-mondo, uscito dalla seconda guerra mondiale per attraversare il comunismo, lo sgretolamento dell’URSS, una particolare forma di capitalismo e l’era Putin.

Una vita, non un film 

Poeta bohémien alla fine degli anni ’60 in Russia, emigrato e sfaccendato dandy nella giungla newyorkese a inizio anni ’70 per poi lavorare come maggiordomo di un milionario a Manhattan, Limonov diventa uno scrittore riconosciuto a Parigi, dove vive dal 1980 al 1989. Negli anni ’90 partecipa alla guerra civile yugoslava sposando la causa del comandante Zeljko “Arkan” Raznatovic, capo delle Tigri della Guardia volontaria serba. Tornato in Russia, fonda il giornale Limonka (molto simile ad una fanzine punk rock) e il Partito Nazional Bolscevico, una realtà che fa presa sui giovani che non si riconoscono nel comunismo ma nemmeno in una Russia che si definisce ora democratica. Di orientamento nazionalista, il partito viene additato di neofascismo, anche per le sue posizioni espansionistiche e nazionaliste, che supportano l’adesione della Crimea. Limonov entra ed esce di prigione - soprattutto per manifestazioni non autorizzate - fino alla reclusione in isolamento, come nemico pericoloso per lo stato e il governo Putin. Viene scarcerato, continua la sua attività politica, scrive poco e muore nel 2020 dopo una lunga malattia.

È senza dubbio difficile portare su schermo un personaggio così peculiare, ancora di più se questa storia è già stata resa nota da un libro di grande successo, diventato una sorta di titolo di culto: Limonov di Emmanuel Carrère, uno scrittore che è a sua volta un personaggio.

Potremmo dire che Limonov è per molte persone ciò che Carrère ha deciso che fosse, soprattutto per il pubblico occidentale. La sua biografia romanzata è stata il veicolo con cui i più hanno conosciuto “Eddie”, come amava farsi chiamare, ma, per quanto fedele ai fatti, è pur sempre una trasposizione, un montaggio, un racconto. Su carta un soggetto di questo tipo apre le porte dell’immaginazione e lascia ai lettori il compito di gestire e “amministrare” tutti i mutamenti di contesto storico e politico, di atteggiamento, di stile estetico e di relazioni completamente estreme che scorrono tra le pagine. Il cinema però deve farsi carico di tutto questo processo e spiegare visivamente queste trasformazioni radicali. È decisamente più complesso, il margine d’errore è molto sottile, tutto potrebbe divenire facilmente didascalico o eccessivo.

Una ballata, non una biografia

Il regista russo Kiril Serebrennikov lo dichiara nel titolo; quella che stiamo per vedere è una ballata ed è con questa forma che ha trovato un escamotage per dare corpo a tutti i passaggi di una vita (e di un libro) intraducibile per il cinema.

Questo impianto offre a Serebrennikov, che viene dalla danza e dal teatro, la possibilità di giocare in un campo che conosce e gestisce molto bene, fatto di scenografie che incastrano tra loro luoghi e periodi differenti, movimenti di camera fluidi e vorticosi, piani sequenza coreografati come balletti, minuziosi ed elaborati. È con questa struttura che il regista riesce non solo a costruire un’estetica e un ritmo interessanti ma anche ad evidenziare l’elemento che tiene insieme tutte le vite di Limonov, ovvero la sua indomabile costanza nell’essere “contro”.

Seguiamo il personaggio aprire porte a New York che si richiudono a Parigi, bucare schermi cinematografici per cambiare aspetto, lo vediamo sfondare muri, strappare manifesti, morire in un attentato immaginario per ritrovarlo risorto altrove. Limonov forza tutto, soprattutto sé stesso, anche solo per la necessità di farlo, per il bisogno di sfuggire e non farsi davvero catturare, incasellare, definire mai. Ogni volta che viene riconosciuto e stimato da un certo ambiente poi lo vuole ripudiare, fugge dalla Russia per repulsione per poi trovarsi negli USA ed odiare anche quelli, ambisce alla celebrità ma quando la ottiene torna a vivere ai margini, come un reietto.

L’attore britannico Ben Whishaw riesce bene a restituirci tutto questo, a mostrarci il glaciale fascio di nervi che Limonov è stato, sempre sul punto di far esplodere una rissa ma al contempo imperturbabile freddo osservatore e lapidario commentatore della società. I tanti tormenti di Limonov convivono con la sua disciplina e la sua fermezza grazie all’interpretazione di Whishaw, e la sua bravura e adesione alla causa sono uno dei motivi per cui vale la pena guardare il film. È lui che tiene in piedi il racconto, sostenuto in un’unico capitolo da Viktoria Miroshnichenko, che interpreta il grande amore della sua vita, la prima moglie Elena Sergeevna Kozlova, modella e scrittrice.

Troppi assenti

Limonov era un guerriero solitario, un randagio difficilmente avvicinabile, più abituato a rivolgersi alle folle (immaginarie o meno) che a sostenere un dialogo. È giusto che Serebrennikov si concentri su di lui e che Ben Whishaw regga il film ma l’assenza di diverse figure e di intere fasi, che hanno influenzato e caratterizzato un personaggio così complesso e controverso, compromettono il ritratto, dandone un’immagine parziale, a metà.

Le fragilità di Limonov emergono nel suo rapporto con le donne ed è ingeneroso che ci venga fatta conoscere soltanto la figura di Elena. Ci sono molte donne che nel libro affiancano Limonov e in qualche modo sono co-autrici di tutti i suoi scritti, trattandosi fondamentalmente di un autore che attingeva alle sue esperienze e al suo vissuto. Anna Moiseevna Rubinstein lo ha accompagnato in tutta la fase iniziale del suo percorso artistico; Nataliya Medvedeva, cantante e scrittrice, è stata la sua seconda moglie, insieme hanno vissuto a Parigi e lei ha collaborato anche al giornale Limonka, che è stato il grande mezzo di affermazione politica per il protagonista.

Affidare solo alla sua relazione con Elena Sergeevna Kozlova il compito di mostrarci un uomo instabile, allo sbando, dipendente da relazioni simbiotiche e maniacali, violento e fissato con il sesso, risparmia a Limonov un certo giudizio (con il rischio di vittimizzarlo o di farlo sembrare un “errore di percorso” da cui è poi rinato) che invece nel libro è presente e che aiuta a far pendere l’ago della bilancia nella valutazione complessiva del personaggio. Serebrennikov (malgrado Carrère abbia contribuito alla sceneggiatura) lo fa risultare molto più sicuro di sé di quanto realmente fosse e questa determinazione è ingannevole, senza il contrappeso di un’esistenza ciclicamente scossa da insicurezze, crolli e abusi.

Ingannevole è anche lo spazio ridotto che ha ricevuto nel film l’attività politica militante che Limonov ha svolto dal suo ritorno in Russia, a metà anni ’90. Sarebbe stata interessate anche per leggere l’attualità che riguarda il paese e la scacchiera internazionale, ma non sembra un obiettivo nel mirino del regista, o forse era meglio che non lo fosse. Il progetto è iniziato quattro anni fa, lo scoppio della guerra ha cambiato molte cose, senza dubbio anche il corso di questo film, ma se nel 2020 avremmo potuto accettare un ritratto più blando e artistico, che sorvolava sugli aspetti prettamente politici del personaggio, oggi non possiamo non considerare questa “ballata” come un’occasione persa per trattare temi come il populismo o le nuove correnti politiche in ascesa nel mondo.

Clamorosa poi è la totale assenza del periodo che vede Limonov nei Balcani durante la guerra in Bosnia al fianco di personaggi quali Radovan Karadžić e Ratko Mladić, entrambi condannati dal tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia per genocidio e crimini contro l’umanità. Anche il fatto che i suoi discepoli di partito abbiano combattuto in Donbass per i separatisti russi venga citato solo prima dei titoli di coda ci dice qualcosa del tono globale del progetto.

Il luogo in cui il film si sofferma maggiormente è New York, e c’è da chiedersi se non sia stata una scelta cosciente. Forse Serebrennikov voleva mostrare quanto in realtà Limonov vivesse l’estremismo politico e di pensiero come un accessorio alla moda, al pari di una giacca, di un paio di pantaloni, di una posa da set fotografico o da passerella. Purtroppo, nella pratica, non si è limitato solo alle apparenze.

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Spoiler 21.05.2024, 13:30

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