MUSICA POP-ROCK

Perdenti di tutto il mondo, unitevi!

Trent’anni fa usciva “Mellow Gold” di Beck, stravagante taglia e cuci pop-rock

  • 1 marzo, 16:00
  • 4 marzo, 14:50
BECK
  • Martyn Goodacre/Getty Images
Di: Andrea Rigazzi

“Sono un perdente, baby,

perché non mi ammazzi?”

Sono le parole del ritornello di “Loser”, l’inno-non-inno ai perdenti che lancia “Mellow Gold”, album di Beck del 1994. Quello che lo porta al successo internazionale.

Tocca a questo biondino californiano consacrare la figura del perdente, che proprio negli anni Novanta del secolo scorso si impone nell’immaginario delle giovani generazioni sospinta da un rock altro. Una palata di dischi che scuote gli Stati Uniti e, con il propagarsi dell’onda, una discreta fetta di mondo. In quel momento non lo sappiamo ancora ma stanno sfumando gli anni grunge dei Nirvana, che comunque hanno lasciato il segno. Gruppi come Pavement e similari hanno portato alla ribalta un altro personaggio della giovine quotidianità: lo slacker, il fannullone convinto. Fare parte delle fasce più dimesse della società post-adolescenziale è di tendenza. Lo abbiamo capito, vanno di moda i tipi un po’ sciatti: non a caso quello stesso anno al cinema esce la commedia Clerks.
In questo sudaticcio brodo di coltura cresce anche Beck Hansen. Che muove i primi passi in una sorta di cantautorato folk a bassa fedeltà, per poi dirigersi verso lo stile variegato di questo album.

Con “Mellow Gold” siamo nella miscellanea totale, una misticanza di stili: qualcuno la riassume come Bob Dylan che incontra i De La Soul. Beh, sì, ci siamo. Beck sembra pescare nella discarica della musica per costruire i suoi pezzi. Rifacendoci alla definizione di cui sopra, il telaio è proprio quello ritmico del rap, su cui il mingherlino musico butta rottami electro e scampoli di folk/country/blues alla maniera di uno Zimmie, ma con piega autoironica per scansare i sospetti di voler volare troppo alto.

Voci e corde sono deformate come predica il rock più rumoroso, che proprio in quel decennio sta guadagnando la superficie dopo una ventina d’anni a ribollir nel sottosuolo. Un recupero di suoni dimenticati e trascurati, su cui Beck rappeggia le sue strampalate filastrocche incollando rime senza per forza cercare un senso. Immagini raccattate ai margini della provincia americana, in una trasandata medietà culturale: negli anni Novanta essere provinciale (o farci) è la via al successo anche per chi gravita a Los Angeles e New York.

Una settimana prima di uscire con “Mellow Gold”, Beck aveva pubblicato “Stereopathetic Soulmanure”, qualche mese dopo è il turno di “One Foot in the Grave”. Il primo è un insieme di folk e sperimentazioni, il secondo folkeggia e basta. “Mellow Gold” armonizza i talenti di Mr. Hansen. Tre dischi in un solo anno ne testimoniano l’estrema produttività. A differenza di “Mellow Gold”, pubblicato sotto major, gli altri due lavori escono per etichette indipendenti mantenendo l’artista con un piede negli ambienti più alternativi. Mutuando dalla politica: di lotta e di governo.

Due anni dopo, “Odelay” esalterà il suo gusto per gli improbabili collage, poi piano piano il Nostro prenderà altre traiettorie musicali, fino a divenire popstar richiesta dalla grande industria dello spettacolo.

A modo suo, in carriera Beck ha ricalcato il mito molto USA dell’uomo che si è fatto da sé. Riascoltando “Mellow Gold” sembra di vederlo, al bordo di una strada polverosa, esibirsi per i passanti con una chitarra da quattro soldi e una drum machine difettosa. Chissà se si ricorda ancora di quel perdente che lo rese famoso.

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