Premessa: Non è necessario essere un accanito fan del rock per apprezzare Spinal Tap. Però aiuta.
Sono passati esattamente quarant’anni da quando il mondo ha cominciato a prendere coscienza della grandezza della “band inglese più rumorosa”. Se non fosse stato per la testardaggine di Martin Di Bergi, il regista del documentario, questa storica testimonianza non avrebbe visto la luce e noi non avremmo potuto vivere l’epopea di David St. Hubbins (voce e chitarra ritmica), Nigel Tufnel (chitarra solista), Derek Smalls (basso), Viv Savage (tastiere) e Mick Shrimpton (uno dei compianti batteristi).
Il film documenta il tour del 1982, che coincide col grande ritorno negli Stati Uniti dopo anni di assenza dal suolo americano. Il film registra tutto, i momenti belli (pochi) e le disavventure (molte, moltissime). E lo fa con sconcertante onestà, anche a costo di farli sembrare dei discreti imbecilli, come quando, ad esempio, si perdono nei sotterranei della sala in cui dovrebbero suonare. Il documentario fotografa impietosamente un periodo doloroso della vita della band, un periodo pieno di tensioni e incomprensioni sempre più insostenibili (tanto è vero che alla fine del tour la band si scioglierà).
Il regista Martin Di Bergi fu spesso sul punto di mollare tutto, perché gli Studios non credevano nel suo progetto. Si inventò una campagna promozionale per finanziare la realizzazione della pellicola. Arrivò persino a realizzare una specie di “demo” di 20 minuti a sue spese pur di ottenere l’appoggio di una qualsiasi casa cinematografica. Alla fine la determinazione pagò. Oddio, non tantissimo. Nel senso che al botteghino il film andò benino, non benissimo. Ma col passare degli anni è stato sempre più rivalutato, sino a raggiungere lo status di “pellicola di culto”. È considerato uno degli spaccati più vividi e reali del delicato equilibrio che regola la vita di un gruppo, una vera e propria pietra miliare della documentaristica rock, per molti è ancora più convincente di opere come “Get Back” (Beatles), “Don’t Look Back” (Dylan) e “The Last Waltz” (The Band).
Ah, a proposito, mi sa che è ora di rivelare un piccolo ma significativo dettaglio. Martin Di Bergi e gli Spinal Tap NON esistono. Sono il frutto della mente diabolicamente malata di quattro amici: Michael McKean, Christopher Guest, Harry Shearer e Rob Reiner. Attori i primi tre, attore e regista (alla prima esperienza) il quarto. Quattro delle menti più genialmente disturbate della loro generazione. Talmente disturbate da non scrivere nemmeno uno straccio di sceneggiatura; l’intero film è improvvisato. Come spesso succede, c’è molto metodo in questa follia. Ognuno di loro si costruisce una biografia, piena di dettagli, e su questo basano tutta l’improvvisazione. Altro piccolo particolare: Michael McKean, Christopher Guest ed Harry Shearer non sono solo attori, sono tutti provetti musicisti. Scrivono le canzoni e suonano i loro strumenti. Non solo: i tre, americanissimi, sfoggiano un accento inglese incredibilmente accurato. A tutto questo aggiungete che visivamente il film ha tutte le caratteristiche di un vero documentario, et voilà, il risultato finale è una gemma rara.
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Classic Rock 10.12.2023, 14:00
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L’intera operazione è talmente verosimile che all’inizio molti (musicisti veri compresi) sono indotti a cascarci con tutte le scarpe. “Chi sono ‘sti tizi fuori di testa? Spinal Tap? Mai sentiti…” . Altri per fortuna colgono subito la cifra di Spinal Tap e in particolare il gusto un po’ bambinesco e raffinato allo stesso tempo con cui Rob Reiner e soci pigliano amabilmente per i fondelli un certo mondo rock, pieno di eccessi, pieno di clichés, semplicemente troppo pieno di sé. Nel giro di poco “la band inglese più rumorosa”, che non esiste, diventa un termine di paragone per gli stessi musicisti (o per lo meno quelli dotati di un certo senso dell’autoironia; non certo gli Uriah Heep che erano pronti ad azioni legali perché convinti di essere l’oggetto della parodia...): “Spinal Tap” diventa sinomino di esagerato, pomposo, ridicolo. Il grande successo della montatura si basa sull’estrema precisione con cui si racconta la vita di una band. E in questo senso, i riconoscimenti più sentiti arrivano proprio dalle rockstar vere: “Ho visto il film un’infinità di volte e ogni volta non so se schiantarmi dalle risate o se piangere (ndr: per il realisimo delle ricostruzioni)”. Firmato Sting e The Edge degli U2 (usano praticamente le stesse parole).
Il film è diventato una di miniera infinita di citazioni, che vanno oltre l’ambito musicale. Tanto per citarne una sola, una delle più famose, se in inglese vuoi indicare qualcosa che va al di là dei limiti, usi l’espressione “go to eleven”, che, guarda i casi della vita, viene dritta dritta dal film. Per chi non avesse visto il film, viene da una delle scene più “realistiche” e divertenti di Spinal Tap, quella in cui il regista Martin Di Bergi intervista Nigle Tufnel nel suo studio, la sua tana, tra decine di chitarre di inestimabile valore e amplificatori “che arrivano a 11”, mica come quelli normali che si fermano a 10.
This is Spinal Tap è un guazzabuglio di inenarrabili scempiaggini, invereconde vaccate e inarrivabili fanfaluche (un singolo termine di origine siciliana renderebbe l’idea più vividamente ma non ci è concesso utilizzarlo). Allo stesso tempo è uno degli atti di amore più sinceri, sentiti e riusciti per la musica rock. Nel caso non si fosse capito, “This is Spinal Tap” è un capolavoro.
PS È di questi giorni la notizia che è in preparazione il sequel di “Spinal Tap”. Attendiamo il film con un misto di eccitazione e apprensione.