È stato il concerto del secolo, la più colossale diretta televisiva mai allestita in mondovisione. Successe il 13 luglio di 40 anni fa.
Una settantina di artisti tra i più celebri dell’epoca diedero vita a oltre 16 ore di musica che incollarono ai teleschermi domestici due miliardi di persone sparse in 150 paesi mentre i due “catini” del Wembley Stadium di Londra e del JFK di Philadelphia accolsero 160mila spettatori.
È necessario un passo indietro, all’autunno dell’anno precedente. Bob Geldof, leader dei Boomtown Rats, era sul divano di casa a guardare un documentario della BBC dedicato alla tragedia alimentare che si stava consumando in Etiopia. Geldof rimase sconvolto da tanto orrore e decise di raccogliere fondi a favore delle popolazioni.
Scrisse un testo di getto e si recò dall’amico Midge Ure (Ultravox). Nacque Do They Know It’s Christmas? Lanciò un appello agli artisti britannici e irlandesi, la risposta fu strepitosa. Un giro di telefonate e il cast era al completo. I due ebbero a disposizione gratuitamente uno studio di registrazione per un giorno. 8 ore per produrre la canzone da capo a coda: all’appuntamento agli Sarm West Studios di Londra si presentarono, oltre a Geldof e Midge Ure, gli U2, Phil Collins e gli Spandau Ballet, Simon Le Bon e i Duran Duran, George Michael e Sting, Paul Weller, le Bananarama. Boy George arrivò in studio un’ora prima della fine perché lo svegliarono e lo misero su un aereo, mentre a sole due vere e proprie divinità fu concesso lo “smart working’”: Paul McCartney e Bowie inviarono infatti per posta il loro contributo.
Una prima controversia nacque all’annuncio pubblico di Geldof di voler donare fino all’ultimo penny i proventi delle vendite. Ma il governo Thatcher non era d’accordo, voleva almeno incassare l’Iva sulle vendite. Lo scontro si risolse a favore di Geldof. La Lady di ferro fece un passo indietro anche sotto la pressione popolare, decidendo infine che avrebbero devoluto anche l’Iva.
Riassumendo: la canzone fu incisa il 25 novembre, presentata il giorno successivo sulla BBC Radio 1 e pubblicata il 3 dicembre del 1984 a nome del supergruppo Band Aid. Inutile dire che ebbe un successo planetario raccogliendo milioni di sterline; però innescò anche altro, ben altro. Alla Vigilia di Natale, dall’altre parte dell’Atlantico, Harry Belafonte era corrucciato e indignato: perché gli artisti afroamericani non avevano fatto nulla per aiutare i fratelli Etiopi e i britannici sì? Partì un giro di telefonate che porteranno al coinvolgimento di Lionel Richie, Quincy Jones e Michael Jackson, entusiasta dell’idea. I tre si ritrovarono nella villa californiana di Jackson e scrissero in un paio di giorni quella che sarebbe diventata We Are the World. E come testimonia lo splendido documentario We Are the World: la notte che ha cambiato il pop ciò che avvenne in pochi giorni fu qualcosa di inimmaginabile: 46 artisti sotto l’egida di Quincy Jones (che fece apporre all’entrata dello studio il cartello «Lasciate l’ego fuori dalla porta») la notte del 28 gennaio del 1985 incisero la canzone che ad oggi ha incassato quasi 130 milioni di dollari.
Questi, dunque, gli antefatti che prelusero al Live Aid, 13 luglio del 1985. Presentato come un “juke-box globale” si aprì a mezzogiorno a Wembley con gli Status Quo e si concluse a Philadelphia poco dopo le nostre 4 di notte con quel canto corale che è We Are the World. Già, perché entrambi gli stadi posero il sigillo finale con i due inni specifici contro la fame: i Band Aid da una parte e il collettivo U.S.A. for Africa a Philadelphia.
E su quei palchi e dietro le quinte successe di tutto. A metà concerto annunciarono che il 95% delle televisioni mondiali erano sintonizzate sull’evento. Phil Collins riuscì nella stessa giornata grazie al Concorde a esibirsi su entrambi palchi. Tra l’altro la leggenda narra che sul volo incontrò Cher e la convinse a unirsi al coro finale di We Are the World. Geldof, organizzatore dell’evento col fido sodale Midge Ure, tra momenti di scoramento ed esplosioni gioia, oltre ad un paio di interventi tutt’altro che urbani sulla BBC, giusto per aizzare le donazioni, telefonò alla famiglia reale del Dubai per raccogliere una donazione principesca. Bette Midler sul palco di Philadelphia presentò al mondo una giovane Madonna «She’s great, she’s hot, she’s a lot like a virgin… she’s Madonna!»
Sul palco americano vi furono alcune reunion estemporanee ma di grande impatto, anche emotivo: quella di Crosby, Stills, Nash & Young e dei Black Sabbath con Ozzy alla voce. Indimenticabile Sting, voce e chitarra o coadiuvato dal sax di Wynton Marsalis, che poi raggiunge sia Phil Collins che i Dire Straits. Oppure David Bowie, sul palco con una superba versione di Heroes dedicata a tutti i figli del mondo, o gli indemoniati Mick Jagger e Tina Turner. Gli U2 offrirono una performance strepitosa imponendosi definitivamente a livello planetario, mentre i riformati Led Zeppelin, con Phil Collins alla batteria, ripudiarono in seguito l’intero loro miniconcerto.
Questa colossale parata di stella annoverò anche Paul McCartney, gli Who, Elvis Costello, Bob Dylan (che ruppe una corda della chitarra interpretando Blowin’ in the Wind) ed Elton John tra i molti. Narra però la storia ormai ammantata di leggenda, che il vero momento epico furono i 20 minuti in cui il Regno Unito, e il mondo intero, furono governati da un’altra regina: i Queen di Freddie Mercury.
Alle 18.41 i Queen salirono sul palco del Wembley Stadium, collegato per l’occasione con Philadelphia, per consegnarsi definitivamente alla leggenda, scolpendo una tra le pagine più straordinarie della storia della musica. Senza luci, effetti, fumo, lustrini e autotune. 20 minuti di sola musica in cui Freddie, indossando gli abiti con cui era uscito di casa (jeans e canottiera bianca, con un bracciale-amuleto borchiato al braccio destro e una cintura borchiata), “suonò” anche il pubblico ipnotizzando il pianeta. E facendo al contempo esplodere i centralini allestiti per le donazioni. La loro performance - celebrata anche dall’ottimo film Bohemian Rhapsody - emoziona, e non poco, ancora oggi; rimanendo un libro maestro per chi nutre velleità musicali. Non è un caso che nel 2005 fu votata come la miglior performance di tutti i tempi.
La storia racconta che all’alba, rientrando a casa stremato, Geldof non conoscesse la portata dell’evento. Apprese dei 50 milioni di sterline nei giorni successivi. Che divennero, a distanza di pochi mesi, 150 milioni di dollari. E anche dell’audience televisiva calcolata poi attorno ai due miliardi e mezzo di persone. Dunque, una manifestazione come il Live Aid, per una delle ultime volte, dimostrò che la musica poteva essere un collante universale, capace di offrire una riposta corale e compatta alle grandi questioni del pianeta. Generando stimoli e riflessioni, focalizzando l’attenzione su una specifica realtà, condita dalle inevitabili polemiche.
Accadde ancora a livello globale qualche anno dopo per Nelson Mandela e per Amnesty International. Ma alcuni anni fa Sir Bob Geldof, titolo ottenuto grazie a cosa combinò in quella stagione ancora di sogni e speranze, rispondendo alla stampa a proposito di un nuovo ed eventuale Live Aid si espresse così: «No, non sarebbe più possibile e non avrebbe senso, proprio perché il rock non ha più un ruolo centrale. La musica è diventata un accompagnamento e ha perso il proprio valore anche perché è disponibile gratis, in quantità massicce, online. Mentre il dibattito si è spostato tutto in rete. Siamo connessi ma isolati. Grazie a Facebook, Amazon, Google ecc. ecc. siamo diventati dei prodotti». Amen.
Live Aid: 40 anni dopo
Millevoci 11.07.2025, 09:15
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