Storia

Dottorato dell’UNIL a Mussolini: fu un livornese a rompere il silenzio

Claudio Cantini riscoprì, dopo l’oblio degli anni, il riconoscimento conferito al Duce dall’Università di Losanna 

  • 2 giugno, 17:00
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Di: Annalisa Izzo 

Nell’autunno 2021, in occasione della mostra Losanna, Svizzera - 150 ans d’immigration italienne à Lausanne, la cittadinanza losannese si è trovata di fronte a un assai improbabile e sorprendente documento. Si trattava di un certificato che recitava così: «A S. E. Benito Mussolini, ex studente alla facoltà di Giurispridenza dell’Università di Losanna, Dottore in Scienze Sociali e Politiche honoris causa per aver concepito e realizzato nella sua Patria un’organizzazione sociale che ha arricchito la scienza sociologica e che lascerà nella storia una traccia profonda».

Il documento, esposto per la prima volta al pubblico, era il Diploma di Dottorato honoris causa attribuito dall’Université de Lausanne al dittatore italiano. Il titolo fu consegnato al Duce l’8 aprile 1937 a Palazzo Venezia da una delegazione dell’ateneo vodese guidata dal Rettore in persona, professor Emile Golay.

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Diploma di Dottorato honoris causa attribuito dall’Université de Lausanne nel 1937 a Mussolini.

Nemmeno due mesi prima, tra il 19 e il 21 febbraio, militari del Regio Esercito italiano, squadre fasciste e civili italiani massacrarono circa 19 mila civili etiopi in rappresaglia all’attentato al generale Rodolfo Graziani (poi dichiarato criminale di guerra dalla Commissione delle Nazioni Unite) da parte della resistenza etiope.

L’attribuzione del dhc destò immediata riprovazione. Moltissime furono le lettere di protesta che, da tutto il mondo, giunsero al Rettorato. L’Università scelse di non rispondere e attendere che quel gran rumore si placasse da sé, perseguendo quella “discrezione” con cui aveva deciso di gestire fin dall’inizio la vicenda. Del resto, tutta quella riservatezza era già stata gravemente compromessa, al punto da mettere a rischio l’accettazione stessa del riconoscimento da parte del Duce. In circostanze degne di un feuilleton, infatti, il giornale socialista Le Droit du Peuple era venuto in possesso del certificato del dhc un mese prima della consegna (la realizzazione del diploma fu affidata ad una tipografia presso cui lavorava un militante socialista, il quale intercettò una prova di stampa e la portò al giornale). La pubblicazione della notizia che l’Università si apprestava a onorare il fondatore di una dottrina politica «agli antipodi dei principi democratici che, calpestando il diritto, si rivolta all’obbligo degli accordi [internazionali, ndt]» venne data sulle pagine dell’organo socialista qualche giorno prima delle elezioni cantonali, nel marzo 1937. Lo sdegno che ne nacque fu così veemente che il capo del Governo italiano, informatone, fece sapere alle autorità consolari che lui quel titolo lo avrebbe rifiutato. La corrispondenza tra Losanna e Roma s’infittì e, soprattutto per opera del professor Pasquale Boninsegni, fascista della prima ora, amico personale di Mussolini, docente di economia politica all’Unil nonché promotore di quella onorificenza, le cose presero, come si è detto, la direzione di Palazzo Venezia, il più in fretta possibile e il più lontano dal Canton Vaud.

E il Duce, in cerca di prestigio internazionale, accettò.

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Il silenzio è d’oro, si sa. Ed è stato grazie al silenzio che i fatti andarono sostanzialmente dimenticati – cancellati, si potrebbe dire – e per circa cinquant’anni l’Unil riuscì a non doversi più confrontare con quel passato di complicità col regime. 

La storia riemerge in un asilo psichiatrico a metà degli anni Settanta. L’Hôpital de Cery all’epoca sorgeva ancora immerso nella campagna, in un contesto bucolico che corrispondeva bene al cliché del luogo dove riposare i nervi. Oggi il grande polo clinico di Cery è completamente assorbito nell’area urbana di Losanna e ospita il Dipartimento di psichiatria dello CHUV, uno dei più importanti ospedali universitari in Svizzera. Dall’inizio degli anni Cinquanta in quella clinica lavorava come infermiere un emigrato italiano poco più che ventenne.

«Per la verità quando sono arrivato in Svizzera non avevo una formazione professionale da infermiere». Claudio Cantini, così si chiamava quel giovane, l’ho incontrato in una residenza per anziani nel Canton Vaud. Oggi ha 96 anni e una storia incredibile da raccontare. La sua città, Livorno, Claudio Cantini l’ha lasciata proprio a vent’anni: «A Livorno – dice lui adesso, ridendo – siamo tutti un po’ rivoltosi, io poi sono cresciuto nel quartiere Venezia… ». Come a dire che la disobbedienza all’autoritarismo e uno spirito fieramente libertario ce li ha iscritti nel dna. In effetti, obiettore di coscienza, Cantini aveva rifiutato la leva militare e attraverso il servizio civile internazionale aveva, in un primo tempo, lavorato come volontario a Siderno Marina, in Calabria, quindi, aiutato dagli ambienti pacifisti era entrato clandestinamente in Svizzera nel 1954. In attesa che in Italia si chiarissero le misure disciplinari contro i renitenti alla leva (refrattari, dice lui), in cambio di vitto e alloggio incomincerà a lavorare all’Istituto Eben-Hézer di Losanna, dandosi molto da fare nell’accudire pazienti affetti da patologie psichiatriche. Di questo si accorgerà il direttore dell’Istituto che gli proporrà di seguire una formazione da infermiere specializzato. Ed è così che Claudio Cantini arriva all’Hôpital de Cery. «Quello che non avevo previsto – chiarisce – era di restare in Svizzera per amore »: sposa una collega, hanno due figli e mettono su casa a Losanna, città che Cantini non lascerà più.

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Claudio Cantini.

«Negli anni Settanta c’era un paziente che, quando m’incontrava nei viali del giardino o nei corridoi, mi dava una spallata e mi urlava: Salve Mussolini!». Il sorriso del novantenne è ancora brillante nel raccontare questa storia. Con quel paziente Claudio Cantini chiacchierava volentieri perché, ricorda, «era uno che aveva avuto posizioni interessanti in ambito sociale» e lui, il livornese ormai naturalizzato svizzero, il fuoco libertario ce lo aveva ancora dentro (per alcuni anni era stato responsabile delle pagine italiane del periodico ginevrino Le réveil anarchiste). Essere appellato con quel nome, certo, in quel contesto, lo faceva sorridere, «Che colpa ne avevo io se Mussolini era italiano? ». In fondo al cuore, però, doveva bruciare. Suo padre, operaio nei cantieri Ansaldo di Livorno, perse il lavoro per non aver voluto tesserarsi al partito fascista. Quello stesso padre che scelse, a costo di sacrifici, di iscriverlo all’Istituto Tevenè, dove Claudio fece i primi tre anni di elementari, finché la famiglia poté pagare la retta. La scuola, laica e repubblicana, era stata fondata da una figura di grande autorevolezza a Livorno (e non solo), Garibaldo Tevenè, il cui magistero di indipendenza e rigore segnò il piccolo allievo.
«A un certo punto successe che quel paziente di Cery si ammalò e per diversi giorni fui io ad accudirlo, così mi venne l’idea di chiedergli: ma senti, mi dici un po’ perché mi chiami sempre Mussolini? ».

È a questo punto che la storia del dottorato honoris causa, dopo oltre trent’anni di silenzio, riemerge. Perché quel paziente psichiatrico si meraviglia che il suo amico-infermiere, italiano, pacifista e antifascista, non sappia che l’Università di Losanna ha onorato il capo del fascismo niente di meno che con un dottorato honoris causa. Da quel momento Claudio Cantini inizia una ricerca che durerà per anni – che lui oggi definisce «un lavoretto che facevo per passione» – e che lo porterà, da storico autodidatta, a pubblicare un libro e molti articoli sulla organizzazione del fascismo nella Svizzera degli anni Trenta e a mobilitare, coi suoi interventi pubblici, la società civile affinché l’Università condanni e ritiri quel titolo.

Nel 1976 Cantini chiede al Rettore dell’Unil di poter consultare gli archivi relativi al dottorato a Mussolini. Il Rettore, Dominique Rivier, nega il consenso sostenendo che la pubblicazione è prematura: «Le passioni che questo episodio ha suscitato – scrive nella lettera di risposta – non sono ancora del tutto placate. Il Rettorato considera che la pubblicazione dei documenti di questo dossier è prematura». È il 12 marzo 1976 e Rivier aggiunge: «Abbiamo inoltre appreso che un professore della nostra Università si riserva il diritto di poter far uso di questi documenti al momento opportuno, per uno studio che effettuerebbe nell’ambito delle sue ricerche. Dobbiamo dunque tutelare i diritti di questo nostro docente». Il dossier viene semplicemente insabbiato: il Rettore lo affida al professore di storia Jean-Charles Biaudet che però non se ne occuperà mai.

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Il 1987 è l’anno del 450esimo anniversario della fondazione dell’Università e il 50esimo del dhc a Mussolini. Cantini non si dà per vinto e approfitta degli anniversari per raccogliere attorno a sé altre voci della società civile, intervenendo sulla stampa e in conferenze pubbliche, esigendo che l’Unil prenda una posizione rispetto a quel gesto. Il Rettore del tempo, Pierre Ducrey, toglie allora il dossier rimasto al professor Biaudet e lo trasmette ad un suo allievo, Olivier Robert, ricercatore in storia, affinché pubblichi al più presto fonti e documenti sull’affaire. Escono il Livre blanc e Matériaux pour servir à l’histoire du d.h.c. décerné à Benito Mussolini en 1937, una raccolta di documenti d’archivio – oggi accessibili online. Tuttavia l’Unil si rifiuta esplicitamente di prendere posizione sulla vicenda e un Comitato civico, nel giugno 1987, presenta una petizione al parlamento cantonale vodese, il Gran Consiglio, chiedendo che finalmente l’Università si esprima, renda pubblici tutti gli archivi sul caso, riconosca l’infondatezza scientifica e accademica del conferimento del titolo e lo annulli. La petizione non viene nemmeno presa in considerazione dall’istituzione politica. Cambiano i Rettori, non cambia la strategia dell’Università. L’impegno civile di Caludio Cantini, tuttavia, ha lasciato il segno.

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Docteur Mussolini. Un passé sensible. Mostra inaugurata il 13 novembre 2024 all’Università di Losanna.

L’allestimento nel 2021 di Losanna, Svizzera - 150 ans d’immigration italienne à Lausanne sembra segnare un punto di svolta: la vista, per la prima volta, del diploma rilasciato al dittatore smuove le coscienze dei visitatori, si forma un Comitato guidato dalle Colonie libere italiane, dall’Anpi di Ginevra e dal Comitato 25 aprile di Zurigo che nel 2023 presenterà una nuova petizione per la revoca del titolo, mentre l’Università decide di affidare ad una Commissione etica il mandato di studiare l’affaire e di fornire elementi che permettano una presa di posizione pubblica.

A oltre quarant’anni dalla richiesta di Claudio Cantini, che non ha mai smesso di sollecitare una risposta dell’Unil, una reazione è finalmente arrivata. Il 13 novembre 2024 l’Università di Losanna ha inaugurato la mostra Docteur Mussolini. Un passé sensible (visitabile sino al 21 settembre 2025), che ripercorre questa vicenda attraverso moltissimi documenti finalmente usciti dagli archivi. Come ribadisce l’attuale Rettore, Frédéric Herman, il titolo onorifico non verrà ritirato, ma il gesto è stato pubblicamente condannato ed è stata avviata una politica memoriale. Tra gli eventi, il 22 e 23 maggio scorsi un convegno dal titolo Antifascism in action, organizzato dalla professoressa Stefanie Prezioso, in seno al quale ha trovato spazio la tavola rotonda Il contributo dell’emigrazione italiana in Svizzera

13:29

Antifascismo in azione

Alphaville 22.05.2025, 11:05

  • Imago Images
  • Marco Pagani

Claudio Cantini non è mai più tornato a Livorno, così gli animatori della tavola rotonda hanno portato Livorno a Cantini. Lo hanno fatto raccontando la sua storia al sindaco della città labronica, Luca Salvetti, e il sindaco ha inviato un messaggio, trasmesso durante la tavola rotonda.

«Claudio Cantini – dice Luca Salvetti dallo schermo – ha portato in Svizzera un bagaglio culturale e di valori incredibile, che sta anche un po’ nel dna della città di Livorno, da cui viene ». La cadenza livornese del sindaco è la stessa che caratterizza ancora oggi l’italiano elegante e dal lessico scelto di Claudio Cantini.

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Foto della tavola rotonda col sindaco di Livorno.

Quando torno a trovarlo nella casa di riposo per raccontargli della tavola rotonda e per mostrargli il video del sindaco della sua città natale ho l’impressione che un po’ si commuova anche lui. Soprattutto quando Salvetti dice «Caro Claudio, la tua voce è estremamente significativa, la tua memoria e il tuo rigore sono un grande contributo alla collettività e al vivere sociale, ma anche all’immagine che la nostra città riesce a portare nel mondo. Per questo a nome dell’amministrazione comunale e di tutta la cittadinanza ti abbraccio e ti diciamo un grande grazie!».

Sì, mi pare commosso. Poi mi dice: «Allora, se vede il sindaco me lo saluti e lo ringrazi».

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