INTERVISTA

“Meno America e meno digitale USA per ritrovare un equilibrio”

A colloquio con il giornalista Bruno Giussani, che ha appena pubblicato il libro “Moins d’Amérique dans nos vies”

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Tecnologie sempre più complesse
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America... Addio? - Minori e digitale: fra divieti e educazione

60 minuti 15.12.2025, 20:45

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Di: 60 Minuti / Essepi 

“Moins d’Amérique dans nos vies”, che si può tradurre con “Meno America nelle nostre vite”, è il titolo del recente libro del giornalista Bruno Giussani, intervistato a 60 Minuti da Reto Ceschi.

È appena uscito il suo libro “Moins d’Amerique dans nos vie”, un titolo che potremmo tradurre un po’ brutalmente “Meno America nelle nostre vite”. Dobbiamo un po’ de-americanizzarci, dice lei, ma il fatto che siamo legati mani e piedi con gli Stati Uniti dai nostri comportamenti quotidiani e lo abbiamo fatto consapevolmente, rende tutt’altro che facile uscire da questo legame, che ci siamo un po’ anche imposti.

“No, anche volendo, è estremamente difficile. Intanto siamo tutti molto coscienti del fatto che utilizziamo tecnologie americane tutto il giorno, professionalmente e anche nella vita privata. Il libro si concentra in particolare sulla de-americanizzazione delle nostre piattaforme tecnologiche. Poi ci sono tutta una serie altri discorsi da fare sulla cultura, sulla politica… ma in particolare su quello. E perché è importante? Perché queste piattaforme determinano molte cose che noi possiamo fare o non possiamo fare e possono esercitare un’influenza veramente molto grande. Non siamo più nell’epoca dove si compravano dei prodotti informatici, li si installava sul proprio computer e li si utilizzava controllandoli e possedendoli in locale”.

“Siamo in un tempo dove tutto quello che facciamo attraverso uno schermo fondamentalmente succede non nell’apparecchio che noi abbiamo fra le mani o sul nostro tavolo, ma nei sistemi gestiti da imprese quasi tutte americane e questo dà loro una grande possibilità di controllo e di influenza”. 

Le grandi piattaforme in grande maggioranza americane sono diventate le padrone del mondo. Si può dire che in molti casi contano più della stragrande maggioranza degli Stati del pianeta, sono onnipotenti e fanno ciò che vogliono. Nessuno è in grado di imporre delle regole perché non si vuole farlo o perché non si può farlo?

“Un po’ tutte e due. Da un lato siamo tutti presi da questa praticità, dalla convenienza, dalla gratuità, dal fatto che queste piattaforme, bisogna dirlo e ammetterlo, funzionano molto bene, ci danno un sacco di vantaggi, ci permettono di accedere alle informazioni, di comunicare facilmente, ottimizzano i nostri processi lavorativi. Sono dei buoni prodotti, ma hanno dietro un problema che è il prezzo del loro utilizzo che è quello della dipendenza tecnologica. Noi per poterli utilizzare dobbiamo poter accedere a questi prodotti”.

“Questo accesso può essere interrotto per ragioni commerciali o per ragioni tecniche o anche per ragioni politiche, cioè su ordine del Governo americano. Per esempio nel caso di alcuni giudici che lavorano per la Corte penale internazionale che hanno fatto cose che sono dispiaciute al Presidente americano e sono sotto sanzione. Il tipo di sanzioni che di solito si applicano a terroristi, però in questo caso sono giudici e hanno perso accesso a tutte le loro piattaforme tecnologiche. Significa niente mail, niente pagamenti e niente accesso ai documenti. Torniamo in pratica ad una vita pre-internet”.

Viene in mente quello che è stato annunciato qualche giorno fa per andare negli Stati Uniti: un esame del nostro comportamento sui social media, in gran parte americani, degli ultimi cinque anni. A parte che praticamente non deve essere facilissimo da realizzare, mi sembra comunque il segno del tempo in cui viviamo…

“Assolutamente noi esistiamo nella vita reale, ma esistiamo anche come proiezione virtuale nel mondo digitale e per la macchina, per i sistemi social o per l’intelligenza artificiale ciascuno di noi è una specie di nuvola di dati e questi dati possono essere analizzati dall’intelligenza artificiale in modo molto veloce. È soltanto un progetto, però ci sono 60 giorni per i commenti, poi vedremo se in febbraio lo applicheranno oppure no”.

Possiamo allontanarci dallo strapotere delle piattaforme riconquistando una sovranità digitale?

“Non si tratta di scappare, né di rinunciare al digitale o all’America. D’altra parte il libro si chiama “Meno America”, non meno cose americane. Si tratta di ritrovare una forma di equilibrio. Evidentemente l’Europa parte in una posizione molto difficile, perché già è difficile politicamente... c’è molta divisione, molta polarizzazione, in parte dovuta anche alla politica che si fa sui social. C’è anche una questione finanziaria in gioco e poi c’è la questione della debolezza, fra virgolette, tecnologica europea che però non è ben compresa, credo, perché ogni volta sento dire la frase che l’Europa non ha alternative alle grandi piattaforme tecnologiche americane”.

“Non è vero che non abbiamo alternative. L’accento è sempre messo su grandi piattaforme e mai sulle alternative. Solo che le nostre alternative sono più piccole, sono nazionali, binazionali, trinazionali. È dovuto al fatto che il nostro mercato è frammentato, che funziona in molte lingue, e ma è dovuto anche al fatto che andiamo tutti a procurarci tecnologia in America. Il rapporto Draghi ha una cifra interessante: l’Europa ha una gap di circa 750 miliardi di euro all’anno di investimenti tecnologici. Però noi comperiamo qualcosa come 600 miliardi di euro all’anno di tecnologia americana. Vuol dire che il gap non esiste. I soldi ci sono, però non andiamo a metterli nelle aziende locali. Mi si dirà che le aziende locali sono meno performanti, ma se l’azienda locale è performante al 90%, ma guadagno il 100% di sovranità tecnologica e di indipendenza tecnologica, mi sembra che sia un buon deal”.

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