L’intervista

L’Etiopia dimenticata

Il paese, nonostante gli accordi di pace del 2022, continua a vivere estenuanti tensioni; lo sbocco sul mare rimane una priorità per il Governo di Abiy Ahmed

  • 23.03.2024, 06:32
  • 25.03.2024, 09:54
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Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite aveva sospeso per mesi nel 2023 le consegne di cibo in Tigray dopo segnalazioni di appropriazioni indebite degli aiuti

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Di: Alessandra Spataro 

Mentre le attenzioni del mondo sono soprattutto puntate su due conflitti, quello tra Russia e Ucraina e quello tra Israele e Hamas, altri paesi stanno vivendo mesi di tensioni. Tra questi, c’è l’Etiopia. Del paese si era parlato molto nel 2022, quando il Governo federale guidato dal primo ministro Abiy Ahmed raggiunse un accordo in Sudafrica con il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) per fermare le ostilità. Ostilità che sono costate la vita a oltre mezzo milione di persone e milioni di sfollati interni. A distanza di mesi però, le tensioni non sembrano essere sopite. Nel nord del paese continuano le frizioni, a cui si aggiunge una situazione di carestia prolungata. Il Governo di Abiy Ahmed, premio Nobel per la Pace 2019, ha rivisto le sue alleanze, scontentato una parte della società, gli amhara in primis, e puntato su uno dei temi cari al suo popolo: la possibilità di avere uno sbocco indipendente sul mare. Il professore di relazioni internazionali all’Università di Trieste Federico Donelli, esperto del paese e dell’area, ci aiuta a capire cosa sta succedendo nel paese.

Gli accordi di Pretoria del 2022 hanno messo fine alla guerra tra il Governo etiope e il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF), ma una vera pace non c’è mai stata…

“Bisogna per primo specificare che all’interno del Tigray si sono formate due anime: una rappresentata dal TPLF che è il partito storico, guidata possiamo dire dalla vecchia generazione tigrina, l’altra da alcuni giovani ufficiali che in questo momento non sono molto allineati alle posizioni del TPLF. Il Governo federale, da parte sua, ha cercato in qualche modo di normalizzare la situazione, ma la situazione è tutt’altro che normale. C’è un problema che rimane aperto e che non è stato affrontato a Pretoria e riguarda il Western Tigray, occupato durante il conflitto da armate regionali amhara che rivendicano queste terre e che sono sostenute anche da alcuni battaglioni dell’esercito eritreo. In questo momento questa fetta di territorio continua a essere occupata da queste due forze. Da quello che so, il gruppo di ufficiali diciamo di nuova generazione è molto scontento e non è da escludere che a medio termine possa scoppiare un altro tipo di conflitto in queste zone”.  

La situazione nel Nord dell’Etiopia rimane quindi complessa. Come sta gestendo questa situazione di tensione il primo ministro Abiy Ahmed Ali?

Abiy Ahmed è un politico che fin dall’inizio, e parliamo del 2018, è stato molto bravo a gestire i diversi gruppi etnici presenti nel paese. Inizialmente ha goduto di un forte supporto da parte dei gruppi amhara e oromo, quest’ultima la sua etnia di appartenenza. Nel riformare lo Stato, ha tentato un superamento della dimensione etnica. La sua narrazione è panetiopica, spesso fa riferimento infatti alla Grande Etiopia del passato. Ma in questo momento, le alleanze sono cambiate di nuovo, ovvero, dopo una fase in cui Abiy Ahmed, grazie al supporto amhara e oromo, si è rivolto contro le élite tigrine (la situazione è degenerata in un conflitto), ora sembra che lo zoccolo duro del potere, anche all’interno dei ministeri stia vivendo una fase di oromizzazione. Ci sono stati cambi anche al Ministero degli esteri, dove sono subentrate figure di etnia oromo a scapito degli amahra. La situazione è cambiata proprio dopo Pretoria. Le componenti nazionaliste di amahara non hanno accettato gli accordi. Per loro sarebbe stato fondamentale acquisire controllo sia di territori sia soprattutto di asset finanziari, che rimangono in mano agli oromo e in parte ai tigrini, che tra l’altro sono la componente più forte dal punto di vista militare.  

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Il primo ministro etiope

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Come mai gli amhara non hanno ottenuto quello che volevano dall’accordo di Pretoria? Qual è il punto focale?

Il punto focale è che gli amhara sono tendenzialmente guidati da un fortissimo irredentismo. Si considerano a capo della Grande Etiopia. Quindi, quando Abiy Ahmed è riuscito a introdurre questo tema, gli amhara lo hanno seguito; quando però ha rimescolato le alleanze, la situazione è cambiata. Il primo ministro, è giusto ricordarlo, ha una grande capacità manipolativa. Anche grazie al fatto di conoscere diversi dialetti etiopi, è riuscito a creare rapporti di empatia e legami con i diversi leader. Negli accordi di Pretoria gli amhara sono però stati completamente esclusi dai negoziati. E questo è un problema. Sono stati esclusi per facilitare il negoziato, ed è stata lasciata fuori la componente più di sostegno all’iniziativa militare. Abiy Ahmed ha poi fatto un’altra mossa, che non è piaciuta. Subito dopo Pretoria, ha deciso di istituzionalizzare tutti gli eserciti regionali all’interno di un esercito federale. In Amhara dove la componente militare è molto forte, questa decisione ha creato subito attrito. Da quel momento, si sono formati dei gruppi, che impropriamente vengono definiti paramilitari, e sto parlando dei Fano che creano instabilità nella regione e nel paese. In questo contesto si inserisce un altro attore, ossia Isaias Afewerki, il leader eritreo che sta consolidando i suoi rapporti con gli amhara e che sa che il suo potere si regge sull’instabilità regionale. Il caos etiope è un caos in cui si sovrappongono una dimensione locale, statale e regionale. Dinamiche molto simili che troviamo anche in Sudan.

In questa instabilità politica, si inserisce anche un altro problema, che tocca soprattutto il nord del paese: la carestia. Come sta gestendo la situazione il Governo?

Male. La guerra di due anni fa ha aggravato una situazione che è ciclica nel paese, quella appunto della carestia. Il problema grosso, in questo momento, è legato alle circostanze internazionali, in particolare alla guerra in Ucraina. Sia per quanto riguarda l’importazione di grano sia per quanto riguarda quella dei fertilizzanti. Si è creata una situazione di circolo vizioso. A ciò si aggiunge che molti agricoltori sono stati chiamati alle armi o sono fuggiti. Poi non dimentichiamoci dell’inflazione, che si fa sentire, e gli effetti dei cambiamenti climatici, che stanno riducendo sempre più le stagioni per le coltivazioni. Uscendo dai confini c’è la questione del Sudan, una sorta di grande granaio della regione. Lì, ormai da un anno, a causa della guerra, non si coltiva più. Il grande problema è che in tutta questa parte d’Africa si stanno sommando situazioni di carestia estrema e di crisi umanitaria. Non solo nel Tigrai, non solo in Sudan, ma anche in Ciad e in Somalia. Anche per le organizzazioni umanitarie non è facile operare, perché devono gioco forza fare delle scelte.

Quando si parla di Etiopia, non si può non parlare di una questione aperta da decenni, quella legata allo sbocco sul mare. Perché è così importante per il paese?

Per rispondere a questa domanda bisogna tenere conto di tre aspetti: quello economico, quello politico e quello legato allo status. Dal punto di vista economico, l’Etiopia è un paese che conta 120-125 milioni di abitanti con una costante crescita demografica e una costante crescita economica. È inoltre l’unico paese al mondo così grande a non aver alcun sbocco sul mare. L’Etiopia ha bisogno di diversificare il suo accesso al mare per una questione commerciale ed economica. Ad oggi commercia unicamente tramite i porti di Gibuti. Questo costa, in termini economici, circa 2 miliardi di dollari all’anno. Adis Abeba vuole liberarsi da questa dipendenza, con un eventuale corridoio Adis-Berbera (nella Repubblica del Somaliland, non riconosciuta a livello internazionale, ndr). Non toglierebbe la dipendenza dal Gibuti, ma permetterebbe lo spostamento del 15% del commercio totale. In pratica, il Nord dovrebbe commerciare con il Gibuti, il centro con Berbera e il sud dovrebbe guardare a Mombasa (Kenya). A livello politico, c’è la questione della presenza etiope in quella che è una delle zone calde in cui si gioca una delle partite principali a livello globale, cioè quella del Golfo di Aden e del Mar Rosso.

Una zona di interesse non solo regionale…

Negli ultimi dieci anni un numero crescente di attori internazionali ha stabilito avamposti o basi militari, o comunque una presenza stabile nell’area. L’Etiopia, che si considera il grande attore regionale, si sente un po’ tagliata fuori. Il paese ha siglato un accordo con la Francia per l’addestramento e la formazione della marina e molto probabilmente anche per l’acquisto di navi da pattugliamento. L’Etiopia vuole partecipare a missioni multilaterali proprio perché questo le darebbe un’immagine che in questo momento non ha. Dal punto di vista ideologico e di retorica, lo sbocco sul mare è un discorso che è molto caro agli etiopi in maniera trasversale alle appartenenze etniche. È ancora aperta una ferita che risale al 1993, dopo l’indipendenza dell’Eritrea, con la scelta di non mantenere nemmeno un piccolo spicchio di territorio con lo sbocco sul mare.

Questa volontà di uno sbocco sul mare come si inserisce nel delicato equilibrio della regione, com’è stata accolta dai paesi vicini?

Non è stata accolta positivamente perché ha accelerato meccanismi che si intravvedono e che stanno portando a una nuova formazione di alleanze regionale. La scelta di sancire questo accordo con uno Stato, il Somaliland, che è de facto uno Stato ma non riconosciuto che fa parte della Somalia, ha ovviamente inasprito i rapporti con la Somalia, favorendo allo stesso tempo il suo avvicinamento con altri attori regionali come l’Eritrea e l’Egitto che sappiamo che con l’Etiopia ha una rivalità accesa legata alla questione della diga sul Nilo. E su queste nuove alleanze subentrano, come spesso è avvenuto negli ultimi anni, anche attori extra regionali, in particolare Emirati Arabi Uniti da una parte e la Turchia dall’altra che in qualche modo ha ulteriormente rafforzato la presenza in Somalia e che cerca di porsi come potenziale mediatore.

Ma l’Etiopia riuscirà ad avere alla fine questo sbocco sul mare?

Il discorso del Somaliland è molto delicato. L’Etiopia avrebbe promesso al Somaliland il suo riconoscimento giuridico in cambio delle concessioni di accesso al mare. Sono convinto che l’Etiopia su questo punto abbia già ridimensionato la propria posizione. Il discorso però dal punto di vista politico-commerciale difficilmente potrà subire un arresto. Abiy Ahmed rischierebbe di perdere molto in termini di popolarità, e non può permetterselo. La mia sensazione è che si procederà con un profilo più basso, promuovendo questo corridoio da un punto di vista prettamente economico e commerciale, anche perché gli Emirati Arabi hanno già investito tanti milioni di dollari e continueranno a farlo. Ormai si è innescato un processo che sarà difficile da arrestare e quindi sì, credo che l’Etiopia alla fine riuscirà a diversificare i porti e probabilmente istituire un piccolo avamposto militare sul Mar Rosso.

01:59

RG 12.30 del 22.03.2024 - Il servizio di Alessio Veronelli

RSI Info 22.03.2024, 12:24

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02:50

Etiopia a rischio guerra civile

Telegiornale 28.11.2023, 12:30

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