Sudan, dentro la guerra in Darfur

Viaggio esclusivo della RSI in un Paese dilaniato dallo scontro di potere interno tra l’esercito regolare e i paramilitari delle RSF - Una crisi umanitaria senza precedenti, con oltre 13 milioni tra sfollati e rifugiati

  • 2 giugno, 05:00
  • Oggi, 12:30
Indice
Prologo

Frontiere di sabbia

Il piccolo bi-elica dell’ONU solleva un polverone ocra quando le ruote planano sulla pista. Il viaggio dentro il conflitto in Sudan inizia su questo nastro di terra battuta ad Adré. Qui finisce il Ciad, di là inizia la guerra.

In mezzo, una frontiera di sabbia, diventata via di fuga per milioni di profughi e via di passaggio per traffici illegali da milioni (di dollari).

Carburante e armi hanno già oltrepassato questa frontiera e viaggiano verso il Sudan. Da questa parte del confine – in Ciad – restano i rifugiati sudanesi, che incontriamo appena scaricano i bidoni di benzina pieni e li riportano vuoti tra i depositi del polveroso “marché Douane”.

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Ciad, campo profughi di Adré - Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 14:33

È il paradosso di chi fugge dalle violenze: per sopravvivere, adesso si fa portatore di quella benzina che alimenta la guerra. Ma sa che a casa sua, per ora, non può tornare: non accenna a diminuire lo scontro tra l’esercito regolare del generale Abdel Fattah Al Burhan e i paramilitari dell’altro generale, Mohamed Hamdan Dagalo. Dall’aprile 2023 stanno combattendo una guerra feroce sulle spalle della popolazione civile, con atrocità e violazioni dei diritti umani su larga scala. Sono appoggiati da una pletora di milizie alleate e sostenuti anche da potenze straniere che li manovrano per i propri interessi. Due generali affamati di potere che stanno affamando il proprio popolo, sottoponendolo a ingiustizie tuttora impunite malgrado le denunce per crimini di guerra.

Si scappa fuori dal Paese: quasi 4 milioni di rifugiati nei Paesi circostanti. Ma anche dentro: 10 milioni di persone costrette ad abbandonare città e villaggi. Come se un’intera Svizzera fosse scappata di casa.

Una guerra troppo sbrigativamente definita “dimenticata”. Impossibile dimenticare quella che l’ONU definisce oggi la “più grave crisi umanitaria al mondo”. In realtà è in cima all’agenda di alcuni gruppi di potere. Quali i motivi? Quali le conseguenze? Come si vive nei territori occupati dai paramilitari?

La RSI ha avuto un accesso esclusivo a una parte della regione del Darfur per documentare le condizioni di vita sotto il potere dai paramilitari delle cosiddette “Forze di supporto rapido” (Rapid Support Forces, RSF) in una parte del Sudan dove in questo momento non si combatte. Ma dove l’impatto delle violenze e delle atrocità è scolpito nei quartieri abbandonati dalle comunità che vi abitavano come i Masalit, presi di mira e massacrati dalle RSF.

Un viaggio che parte proprio con le testimonianze di chi è fuggito e che da fuori - dal Ciad - può parlare delle vessazioni subite. E resta sospeso nella precarietà dei campi profughi, tra il dolore della memoria e l’incertezza del futuro, a un’ora d’auto dalla propria città in Sudan.

Capitolo uno

Donne sole, famiglie strappate

“Sono terrorizzata, sanno dove mi nascondo. Mi minacciano anche via whatsapp. Ho paura per i miei figli”. Appuntamento al tramonto, tra le capanne del grande campo profughi di Adré. Qui sarebbe facile nascondersi: quasi 250’000 persone vivono accampate da due anni in questo dedalo di steccati di paglia e alloggi costruiti col poco che si riesce a recuperare. Eppure ha paura questa donna dagli occhi generosi e la stretta di mano fiera: le hanno ammazzato il marito e il padre davanti a casa, a Geneina, in Sudan. Ma adesso la violenza la sta inseguendo anche qui in Ciad, dove sperava di essere al riparo dalla guerra.

Invece Fatima – nome di fantasia per tutelarne la vera identità – teme per l’incolumità di ciò che resta della sua famiglia: l’anziana madre, due figli adolescenti, il più piccolo dei quali arrotolato su se stesso dopo i traumi che l’hanno trafitto. Fatima era una funzionaria pubblica nello Stato del Darfur Occidentale, a un’ora d’auto da questa cittadina in Ciad. I paramilitari la conoscono e la riconoscono. L’hanno già aggredita anche qui al mercato. “Non posso nemmeno uscire per comprare il cibo”. I combattenti delle RSF varcano il confine soprattutto di sera. Li individuiamo tra i fumi delle griglie dove si cuoce carne di montone quasi al buio.

Fatima invoca protezione, vorrebbe spostarsi da Adré ma non sa dove andare per ora. “Questa frontiera è aperta, i Janjaweed arrivano fino qui”. Usa un termine che riporta indietro a violenze precedenti ma del tutto simili a quelle attuali: al genocidio del 2003. Allora i massacri li compivano i “Janjaweed”, i cosiddetti “diavoli a cavallo”. Oggi viaggiano su Toyota con mitragliatrici pesanti montate sul cassone. Hanno nuovi nomi, nuove armi: RSF, “Rapid Support Forces”, le Forze di supporto rapido. Ma usano la stessa inusitata violenza contro le comunità del Darfur originarie del Sudan Occidentale.

“Mi sento abbandonata”. La tentazione – aggiunge – è di “scappare verso la Libia e poi l’Europa per salvare la mia famiglia”. Fatima è sola. Come lo sono migliaia di altre mamme e mogli fuggite qui in Ciad. I loro mariti uccisi o strappati dalle famiglie durante la fuga e poi scomparsi, soprattutto nei primi mesi della guerra.

Un destino comune anche a Safa, sua sorella, e a sua cognata: tre famiglie, 14 figli in tutto ma nessun papà: li hanno uccisi in Sudan. Le incontro nell’alloggio di fortuna costruito con teli di plastica appoggiati a un muretto in mattoni rossi. Dopo il tramonto, sono silhouette rapide nelle ombre della sera: si allungano verso il mercato, dove gestiscono un piccolo caffè organizzato con un semplice tavolino e qualche bicchiere di vetro. Costrette a inventarsi un piccolo lavoro. Per loro è l’unico modo di guadagnare, anche se Safa ha creato un piccolo commercio di henné e profumi aromatici. Non era questa la sua professione, prima. Safa era un’infermiera, suo marito un militare dell’esercito sudanese. È stato ucciso nella primavera del 2023, durante l’assedio delle RSF alla città di Geneina. Lei racconta di aver trascorso 17 giorni in una caserma delle forze regolari occupata dai paramilitari, col marito ormai cadavere e il terrore di essere giustiziata, mentre le RSF assaltavano la città per poi occuparla definitivamente. 

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Il dottor Hassan Zakaria in questi mesi creò cliniche clandestine per curare i feriti: “Di giorno li raccoglievamo, di notte eseguivamo gli interventi chirurgici. Ma soprattutto ha documentato – con nomi e cognomi – le vittime nella sua comunità: 4’250 i morti registrati, oltre 9mila i feriti. Tanti, tantissimi uomini.

E le donne – fuggite in Ciad - ora si aiutano tra loro: sotto una tenda del campo profughi di Adré gli orrori della guerra vengono condivisi sotto “per mitigare il dolore”, come spiega Zara Adam Hamis la promotrice di questa cooperativa dove mamme, sorelle e figlie rimaste sole si sostengono psicologicamente ma anche finanziariamente con la produzioni di piccoli manufatti artigianali.

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Ciad: il dottor Zakaria, un medico-testimone che ha documentato le violazioni dei diritti umani - Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 14:47

Ha conosciuto la brutalità dei paramilitari delle RSF anche Ahlam Mousa Daoud, 17 anni, un velo nero a incastonare gli zigomi illuminati dalla luce obliqua e a tratti caravaggesca della sua piccola capanna. Porta addosso i segni della violenza furiosa che ha colpito soprattutto le donne. Un combattente tentò di violentare sua sorella, lei la difese e le RSF le spezzarono il braccio sinistro in tre punti tanto da doverlo poi amputare. “Oggi non ho futuro, non riesco a lavarmi né posso tenere in braccio un bimbo”.

Un paese mutilato del suo presente e del suo futuro.

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La testimonianza: Ahlam e le altre donne sole - Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 14:42

Capitolo due

Sulle piste dei trafficanti

Non lontano dal tavolino del caffè di Safa, sullo stradone che conduce verso la frontiera col Sudan, è un via-vai di carretti trainati da cavalli. Soprattutto al tramonto. Saliamo su quello di Mohammed, che schiocca una frustata al suo animale affaticato. È appoggiato a una dozzina di bidoni da 200 litri di benzina. “Sono vuoti, altrimenti sarebbe troppo pericoloso”.

Li trasporta per poco più di un paio di chilometri: dal piccolo mercato alla dogana sudanese fino a quest’area puntellata da montagne di bidoni e camion. Arrivano dalla Libia, come ci racconta un libico che ha tutta l’aria di essere un trafficante: jalabiya blu elettrico, turbante bianco e sorriso furbo. Ci vogliono cinque giorni e un sacco di tangenti da sborsare lungo tutto il tragitto per riuscire ad arrivare fin qui. Una rotta nota a tutti, con regole e tariffe precise da pagare ai gruppi armati che controllano il deserto dal sud libico fino a questi confini porosi.

“È un meccanismo ben consolidato, tutti lo conoscono” ci spiega Ahmed, ex-studente di veterinaria a Khartoum scappato dalla guerra. Che ora viaggia con questi convogli illegali in transito sotto gli occhi di tutti. E tutti ci guadagnano, incluso il Ciad. Anche le armi viaggiano sulle stesse piste. 

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Mucchi di bidoni di benzina sono allineati lungo la strada per la frontiera col Sudan accanto alle autocisterne arrivate dalla Libia – Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 14:51

Non riusciamo a documentarne direttamente il passaggio. Riusciamo invece a identificare una serie di aerei sospetti sul tarmac della capitale del Ciad: all’aeroporto di N’Djamena vediamo in rullaggio in Iliushin76 con drappo russo. Non lontano, un Boeing 737 di una compagnia aerea con sede ad Abu Dhabi. Il governo del Sudan accusa gli Emirati Arabi Uniti di “complicità in genocidio” per la fornitura di sostegno economico e militare alle RSF. Il governo di Khartoum si è rivolto anche alla Corte di Giustizia Internazionale, che però a inizio maggio ha respinto il caso per “mancanza d’autorità” in materia. Già alla fine del 2023 un rapporto ONU aveva documentato trasporto di materiale bellico, sfruttando soprattutto l’aeroporto di Amjarass, un’area remota nel nord est del Ciad. 

FOTO BONUS - un gruppo di mamme sfollate da diverse zone del Sudan dove si combatte, da El Fasher a Nyala - foto Emiliano Bos.JPEG

Un gruppo di mamme sfollate da diverse zone del Sudan dove si combatte, da El Fasher a Nyala

  • RSI - Emiliano Bos

Nello scalo della capitale vediamo un Airbus 321 senza insegne né scritte. Appartiene a una società privata egiziana: è stato tracciato più volte sulla tratta da Mombasa, in Kenya, a Misurata in Libia e fino a N’Djamena. Il sospetto è che possa trasportare materiale destinato ai paramilitari delle RSF.

Le armi non viaggiano solo sulle piste di sabbia. Ma anche su quelle di decollo e atterraggio del Ciad e di altri Paesi.

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Mohamed Sakin Eisa Abusefa, paramilitare delle RSF - Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 14:54

Capitolo tre

La nuova mappa e gli scambi di popolazione

“Darfur” significa “la casa dei Fur”, una delle comunità più colpite dal genocidio del 2003 e dalle violenze di queste guerre. Sono state spesso svuotate le case dei Fur, degli Zagawa e dei Masalit. Comunità cacciate dalle proprie terre, perseguitate e massacrate.

La guerra sta ridisegnando la mappa del Sudan: quei quartieri vuoti che abbiamo visto a Geneina si stanno ora popolando di sfollati in fuga dalla linea del fronte.

FOTO BONUS - in Sudan è in corso una guerra anche per il controllo delle risorse tra cui l'oro e terre fertili- foto di Sara Creta.JPG

In Sudan è in corso una guerra anche per il controllo delle risorse tra cui l'oro e terre fertili

  • RSI - Sara Creta

Incrociamo quattro camion stracarichi di masserizie e persone nel quartiere di Jamaric. Da uno, vediamo scendere 60 persone della stessa famiglia, i volti segnati dalla stanchezza sulle donne più anziane, i bimbi pronti a saltare sull’altalena di corda appesa a un albero che qualcuno ha preparato per loro. Un mese di viaggio, sotto le bombe degli aerei dell’esercito. I camion sono ricoperti di uno strato di fango: il colore della terra dovrebbe renderli meno visibili dall’alto. Su uno dei veicoli l’adesivo delle RSF.

Queste famiglie arrivano da Khartoum: dopo averla occupata per due anni, le RSF sono state respinte oltre il Nilo dall’esercito regolare. Scontri e bombardamenti durissimi, spingono i civili a lasciare la capitale. Ma questi quattro camion hanno un carico particolare: gli sfollati sono famigliari degli stessi combattenti delle RSF. E vanno a occupare le case che gli i paramilitari – a partire dal 2023 ma anche prima - hanno svuotato dei loro abitanti con la violenza.

“Tra poco arriva la stagione delle piogge: dobbiamo solo aggiustare il tetto e poi possiamo abitare in questa casa” dice Mohammed Abdallah. Quartieri fantasma che si ripopolano di nuove persone: sono sagome stanche e affaticate, anch’esse vittime della guerra malgrado il legame così stretto con chi ha perpetrato violazioni su larga scala. 

Capitolo quattro

Fallimento ONU, da campo militare a campo profughi

Tre pennoni blu senza bandiere: “Welcome to UNAMID” con le maiuscole ormai scrostate. È l’immagine simbolo di una comunità internazionale che ha ammainato il vessillo della sua presenza. L’ONU – con questa missione – ha provato per alcuni anni ad arginare le violenze dopo il genocidio del 2003 in Darfur. Oggi non ha una presenza strutturale per gestire la gigantesca operazione umanitaria portata avanti dalle sue agenzie e dalle poche ONG presenti.

Questa base - qui a Zalingei, nello Stato del Darfur Centrale - era una dei quartier generali delle forze di pace delle Nazioni Unite, che si è ritirata nel 2019. Restano prefabbricati, uffici vuoti, lunghi rotoli di filo spinato e sacchi di sabbia. Ma invece di proteggere i caschi blu fanno da riparo ai capelli bianchi di Abdulrahim Abdallah e delle sue sei caprette. Davanti a quello che era un container con l’insegna “UN” (Nazioni Unite) lui ha piazzato alcune reti di letti in ferro sotto gli eucalipti, all’angolo di un viale disabitato della base ONU trasformatasi in un campo profughi. Ha portato qui la sua famiglia da Nyala, una delle roccaforti delle RSF in Darfur: “L’esercito regolare ci bombardava di continuo, qui finalmente possiamo stare tranquilli”.

Le forze armate di Khartoum usano l’aviazione anche contro aree residenziali, come hanno confermato alla RSI numerosi sfollati incontrati in diverse zone del Darfur. 

FOTO BONUS - gli sfollati da Khartoum parenti dei paramilitari vanno ad abitare in un quartiere dove gli abitanti sono stati scacciati dalle stesse RSF - foto Emiliano Bos.jpg

Gli sfollati da Khartoum parenti dei paramilitari vanno ad abitare in un quartiere dove gli abitanti sono stati scacciati dalle stesse RSF

  • RSI - Emiliano Bos

Zalingei è un’altra delle città controllate dai paramilitari. “I feel homeless in my home”, mi sento un senza casa qui a casa mia, ci dice Malik, docente di agronomia alla locale università ormai chiusa da oltre due anni. Siamo seduti a un piccolo chiosco lungo una strada alla periferia della città. Sulla griglia un signore continua ad aggiungere cosce di montone, Qui i clienti non mancano. Sono soprattutto i combattenti delle RSF. Ci guardano, sorridono, mostrano pollice all’insù. Come se questa assurda mancanza di scontri armati fosse garanzia di un’apparente normalità, in realtà devastata dal conflitto.

“Non funziona nulla: elettricità, acqua potabile… ma nemmeno scuole, università, tribunali, uffici pubblici”, aggiunge il professor Malik. “Quando nasce un bambino, non viene nemmeno registrato all’anagrafe. Qui lo Stato è morto”. 

Ripartiamo verso Geneina, la capitale del Darfur Occidentale.

Capitolo cinque

Miniere e monili, lingotti e kalashnikov

Da Zalingei per tornare a Geneina si superano 18 posti check-point in un paio d’ore d’auto. Spesso sono solo un paio di tronchi leggeri appoggiati a due copertoni in mezzo alla strada. Un paio di combattenti svogliati in infradito – non sempre in divisa – li spostano dopo una rapida occhiata alla nostra auto.

Posti di blocco che servono alle RSF per controllare un territorio ormai senza legge. Qui le divise, appunto, non servono più. Spesso queste postazioni sono gestite da milizie locali alleate dei paramilitari, in un reticolo di connessioni armate che hanno un solo obiettivo: perpetrare la violenza e garantirsi il controllo delle risorse. 

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Una veduta col drone delle rovine del villaggio alla periferia di Sissi in Darfur, distrutto durante il genocidio del 2003 - Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 15:21

Le stratificazioni di questa guerra emergono chiare lungo il tragitto. Nel villaggio di Sissi vediamo un villaggio distrutto all’epoca del genocidio del 2003: semplici case di mattoni scoperchiate, una violenza che ha annichilito e sradicato intere comunità. Qualche chilometro più avanti, verso la cittadina di Morni, un altro devastato invece di recente.

Conflitti che si sovrappongono nel tempo sommando motivazioni etniche, politiche ed economiche. Oggi i predoni si chiamano “RSF”, combattenti in gran parte legati alle tribù nomadi del nord. Li riconosciamo facilmente anche quando non sono armati: indossano il kadamol, un turbante mimetico segno di appartenenza e identità. Ne incrociamo un sacco al mercato di Geneina. Spesso ragazzini, chissà quanti minorenni tra loro. Impossibile indicare statistiche, ma moltissimi hanno i tratti di chi è appena adolescente. Un gruppetto siede con i cellulari in mano nella strada dove sono allineati diversi laboratori dell’oro. “Questi arrivano da Dubai”, butta lì il titolare di una piccola gioielleria indicando orecchini e collane di fattura raffinata, come se fossimo in un centro commerciale di uno scalo aereo del Golfo. Eppure i clienti ci sono. Si sono arricchiti proprio con l’oro delle miniere del Darfur. Come la famiglia del generale Dagalo, capo delle RSF. I dossier di diverse organizzazioni internazionali lo inchiodano: hanno documentato lo sfruttamento dell’oro da parte del suo clan, con enormi quantità esportate verso gli Emirati Arabi Uniti. E da lì – “ripuliti” per cancellarne la tracciabilità – venduti ovunque, Svizzera inclusa. 

FOTO 7 - Ahmed Hassan Tajeddin è un artigiano dell'oro delle miniere del Darfur, in gran parte esportato dai capi dei paramilitari delle RSF - foto Emiliano Bos.jpeg

“Questi sono monili per gli acquirenti locali”, spiega Ahmed Hassan Tajeddin, 55 anni, toni pacati come l’azzurrino della polo color carta da zucchero che indossa. Tra le mani fa tintinnare piccole rotelle dorate a forma di moneta che compongono una collana. Racconta che suo padre fu il primo ad aprire questo piccolo laboratorio orafo. Accanto alla sua poltrona sgualcita, una fresatrice un po’ arrugginita per le lavorazioni artigianali del metallo prezioso. Qui arriva solo quello meno puro, con caratura al 17 per mille. “È quello che resta sul mercato locale” aggiunge l’orafo.

L’oro che vale davvero – in abbondanti quantità – viene trasferito all’estero. In Sudan restano i lingotti di scarto e la guerra per il controllo di queste risorse, sulle spalle della sua gente.

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Oltre 13 milioni di persone sono scappate dalle proprie case in Sudan a causa della guerra. Un esodo che non accenna a diminuire – Immagini di Sara Creta

RSI Info 31.05.2025, 15:24

Conclusione

Tra criminalità e impunità

“Noi stiamo documentando le violazioni sui civili in Sudan: questo servirà a portare giustizia. Ci saranno riparazioni per le vittime” assicura Jamal Abdallah Jamis. Questo avvocato di Geneina ha trent’anni e un bimbo nato dodici ore prima. Con i volontari dell’associazione “Jusur” dal Ciad raccolgono le testimonianze che condividono con la Corte Penale Internazionale. Ha il sorriso emozionato di chi vive la prima paternità, un sollievo di speranza in condizioni di assoluta precarietà e palese sofferenza.

C’era speranza di un governo civile anche nel 2019 dopo le rivolte di piazza che fecero rotolare via la trentennale dittatura di Omar El Bashir. Ora il conflitto ha spento quelle aspirazioni a una transizione civile.

Si definisce comunque “civile” anche Tijani al-Tahir Karshom, governatore del Darfur Occidentale. Lo incontriamo nell’ex-sede della Camera di Commercio, trasformata nel suo quartier generale. Combattenti con lanciarazzi e RPG stazionano su un fuoristrada all’ingresso. Il governatore dice alla RSI dice di non appartenere alle RSF e di essere stato eletto “su mandato della comunità”. Parole in evidente contrasto con la realtà dei fatti. Svizzera e Unione Europea lo hanno posto sotto sanzioni per violazioni dei diritti umani. E per il coinvolgimento nell’uccisione del suo predecessore: nel 2023 l’allora governatore Khamis Abakar venne ucciso da uomini armati sospettati di essere parte delle RSF.

Karshom prese il suo posto. Oggi è stato destituito dal governo centrale del Sudan ma si rifiuta di lasciare il potere e lo mantiene grazie all’appoggio delle RSF.

Si continua a fuggire da tutto il Sudan: lo vediamo anche quando lasciamo il Paese per tornare in Ciad, lungo la frontiera di nord-est. Al confine di Tiné incontriamo un gruppo di rifugiate – tutte donne – appena arrivate da El Fasher, città controllata dall’esercito ma sotto l’assedio delle RSF da oltre un anno.

Lì gli abitanti sono sottoposti a incessanti bombardamenti. Oltre mezzo milione di persone è fuggita verso il campo profughi di Zamzam. I paramilitari lo hanno martellato più volte, incuranti di scagliare ordigni sugli sfollati. Centinaia di persone sono state massacrate. La maggior parte delle ONG che forniva assistenza si è ritirata dopo l’uccisione del proprio personale. 

FOTO 10 - SUDAN una rifugiata da El Fasher incontra l'Alto Commissario ONU per i rifugiati Filippo Grandi - foto Emiliano Bos.JPEG

Questa donna racconta all’Alto Commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi la sua fuga disperata, i rischi del viaggio e l’arrivo in Ciad. Seguiamo Grandi per oltre 24 ore durante la visita in questa zona. Durante una conversazione a poche decine di metri dalla frontiera tra Ciad e Sudan, l’Alto Commissario ONU denuncia alla RSI il “quasi completo silenzio” della comunità internazionale su questa guerra. “Eppure non è solo una questione umanitaria. I rifugiati vanno in Libia e poi vogliono andare in Europa. È anche una questione di interesse per l’Europa aumentare il suo supporto”.

Grandi ha rivolto ripetuti appelli per cercare di attirare l’attenzione su questo conflitto e le sue cause: “Questi militari che colpiscono la propria gente devono smetterla”. Parla di una guerra “trascurata”, volutamente lasciata da parte dalla comunità internazionale.

Trascurati e abbandonati. Così si sentono i rifugiati. Ahmed incrocia le gambe seduto sulla stuoia davanti alla sua capanna nel campo profughi di Aboutengue. Ci offre caffè speziato: aroma profumato e sapori che però non addolciscono la sofferenza e la lontananza da casa. Era insegnante di storia e geografia. Qui - tra queste capanne che hanno il tetto di lamiera e dove c’è una latrina in comune per centinaia di persone - si è reinventato docente di scienze.

Insegna a bambini che forse a casa non torneranno mai. E si sforza di creare per loro un futuro. “Siamo prigionieri. Hanno preso la nostra libertà e abbiamo perso il nostro Paese”.

25:05

Sudan, dentro la guerra in Darfur

Falò 27.05.2025, 21:10

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A cura di:Emiliano Bos (testo e fotografie) con la collaborazione di Sara Creta, inviati RSIRSI Info/Falò, produzione

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