I beni del Patrimonio mondiale dell’UNESCO in Svizzera hanno aperto le loro porte in questo secondo fine settimana di giugno. Un evento promosso da 8 anni dall’associazione World Heritage Experience. Questo patrimonio naturale e storico oggi è relativamente al sicuro, ma per proteggere questi beni anche in futuro, bisogna conoscerli.
Un sondaggio recente rileva che gli svizzeri conoscono meglio il patrimonio presente in altri Paesi, rispetto a quello di casa propria. Qualcosa che “capita abbastanza spesso”, secondo Lorenzo Cantoni, responsabile della cattedra UNESCO all’Università della Svizzera italiana. “A volte ci viene più facile conoscere i posti lontani. È ben possibile che magari un patrimonio come il Monte San Giorgio o le faggete ticinesi siano un po’ meno conosciute in Svizzera interna rispetto ai castelli. Quindi questo è possibile, ma non significa però che ci sia disinteresse”.
L’obiettivo però non è tanto quello di attirare più gente, ma piuttosto offrire un’esperienza memorabile anche attraverso nuovi strumenti. Ci sta pensando l’USI, in collaborazione con l’associazione World Heritage Experience. “Stiamo discutendo con loro di esplorare, ad esempio, la via della cosiddetta gamification”, prosegue Cantoni, “cioè di proporre il patrimonio svizzero attraverso modalità ludiche simili a quelle dei giochi elettronici. Così le persone vi si possano accostare in un modo diverso, ma in un modo anche che aumenta le possibilità di ricordare quello che si è visitato e che quindi abbiamo in qualche modo il diritto di eredità. E questo è il senso di heritage.”
Sempre più luoghi, tradizioni, edifici chiedono e ricevono il label UNESCO. Ci si potrebbe chiedere se il moltiplicarsi di beni riconosciuti come patrimonio mondiale possa diminuire il valore che le persone danno a questi beni. Per il direttore della cattedra Unesco all’USI, non è così. “La Convenzione sul patrimonio mondiale naturale e culturale del 1972 ha avuto uno sviluppo molto, molto ampio. In origine non aveva nessun obiettivo di natura turistica. Era un obiettivo di preservazione e conservazione, eventualmente di comunicazione del patrimonio. Strada facendo, in parallelo con lo sviluppo del cosiddetto turismo di massa, questo label ha significato anche portare all’attenzione dei viaggiatori dei luoghi che magari erano meno conosciuti. Quindi no, non mi sembra che oggi sia un rischio concreto quello di averne troppi. È vero però che stanno aumentando e che le logiche dietro le iscrizioni un po’ stanno cambiando, con un obiettivo oggi di avere più iscrizioni da aree che prima ne hanno avute meno o addirittura nessuna”.