Teatro

“Lo sguardo dal ponte” di Arthur Miller

Storia di uno spettacolo e di una visione

  • 15 novembre 2023, 11:17
  • 16 novembre 2023, 10:47
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Di: Valentina Grignoli

Ci sono storie che quando le senti poi non te le levi più dalla testa. È quello che accadde a Arthur Miller, drammaturgo nato a New York nel 1915, uno degli autori più significativi del teatro americano, la prima volta che sentì parlare di Eddie Carbone.

Uno sguardo dal ponte (A view from the Bridge), ancora oggi grande classico della drammaturgia, racconta un fatto di cronaca brutale e inspiegabile che fece parlare tutta Brooklyn. La storia aveva dell’incomprensibile, e la nota attenzione di Miller verso le debolezze umane ebbe la meglio ancora una volta sulla morale, nel tentativo di raccontare gli abissi di una tormentata passione. Un po’ quello che tentano di fare oggi i podcast true crime così in voga, ma qui in chiave drammaturgica, e con un’attenzione al dettaglio che non ha nulla da invidiare alle narrazioni più contemporanee.

Non per nulla il testo, scritto nel 1955 e poi rivisitato un anno dopo in una versione amplificata (vedremo come mai), fu messo in scena in Europa da grandissimi nomi tipo un giovane Peter Brook (che ne decretò il successo londinese prima e parigino poi) e Luchino Visconti, nella versione del 1958 definita magistrale, contribuendo a rilanciare il teatro europeo, e la versione cinematografica di Sidney Lumet del 1962 è rimasta tanto impressa nella memoria collettiva che anche le contemporanee messe in scena a teatro come l’ultima di Popolizio la citano a esempio.

Ma andiamo per ordine. La trama. Cosa abbiamo imparato negli anni? Che dietro alle tragedie famigliari solitamente ci stanno amore e soldi. Red Hook, quartiere italoamericano di New York, anni cinquanta. Eddie Carbone è uno scaricatore di porto emigrato che vive con la moglie Beatrice e la nipote diciottenne Catherine di cui è tutore legale, in seguito alla morte dei genitori. Quel rapporto speciale che lega Eddie alla nipote, che pare un paterno affetto protettivo, copre in realtà l’ossessione del patrigno nei confronti di Catherine. Se n’è accorta Beatrice, con la quale le cose non vanno bene da un pezzo, non riesce ad ammetterselo invece proprio Eddie, che per negare l’evidenza si costruisce – e fa subire agli altri - un castello di menzogne. Come sempre, la tensione esplode e la situazione sfugge a qualsiasi controllo facendo crollare il castello quando sopraggiunge la gelosia. A casa Carbone arrivano di nascosto altri due immigrati siciliani, lontani cugini di Beatrice. Nonostante siano in America illegalmente Eddie acconsente ad ospitarli in casa. Sono Marco, padre di famiglia dal temperamento tranquillo che conta di racimolare un po’ di soldi per poi tornare in patria, e Rodolfo, più giovane, con la voglia di divertirsi e iniziare una nuova vita a New York. Come facilmente prevedibile, Catherine si innamorerà proprio di quest’ultimo, ricambiata, e Eddie farà di tutto, arrivando a umiliarsi e diventare crudele, per impedire a questo amore di esistere. E alla fine tutta la famiglia crollerà sotto il peso di un tragico epilogo.

Ha il sentore del mito greco, questa tragedia, perfetta e misteriosa, non a caso a Broadway la scenografia era dominata da un frontone stile greco e  forte era richiamo a un mare quasi ellenico. Ed è difficile non paragonarla all’altrettanto tragica fine di Fedra. La regina di Atene figlia di Minosse e Pasifae, che aveva sposato Teseo dal quale aveva avuto due figli; la Fedra che si era ritrovata in casa anche Ippolito, il figlio precedente di Teseo avuto con un’Amazzone, e se era innamorata follemente. E che, quando il giovane l’aveva respinta, aveva accusato di violenza carnale per poi disperata togliersi la vita.

Insomma: menzogne, accuse, amori impossibili e difficili d’ammettere a sé stessi sono alla base di questo dramma familiare che però non si ferma qui, ma racconta, come del resto fa la maggior parte della produzione di Miller, il mondo degli emarginati, e cerca di trovare l’umanità dove tutti vedono mostri. L’immigrazione sta al centro di questa pièce, ma non solo, anche la volontà di proporre dei fatti di cronaca con la maggior obiettività possibile, affinché il pubblico possa liberamente nel suo intimo giudicare da solo nel buio della sala.

Ricorda Arthur Miller a proposito dell’opera: “Se questa storia era accaduta, e se non avevo potuto dimenticarla in tanti anni, essa doveva avere per me un qualche significato, e potevo scrivere ciò che era accaduto, e perché era accaduto; e del significato che ciò aveva per me, descrivere quel tanto di cui mi rendevo conto. Tuttavia desideravo lasciare l’azione così com’era, in modo che lo spettatore avesse la possibilità di interpretarne il significato interamente per conto suo, e accettare o respingere la mia interpretazione. Questa consisteva nell’orrore di una passione che nonostante sia contraria all’interesse dell’individuo che ne è dominato, nonostante ogni genere di avvertimento ch’egli riceve, e nonostante perfino ch’essa distrugga i suoi principî morali, continua ad aumentare il suo potere su di lui fino a distruggerlo”.

Arthur Miller come detto scrive una prima versione di Uno sguardo dal ponte nel 1955. Era un atto unico e veniva rappresentato insieme a Ricordo di due lunedì, due opere affini per stile e punto di vista, che tratteggiano la vita di lavoratori di città non distinti e non eroici, e che sottolineano il distacco del drammaturgo nel raccontarle.

Ma questo distacco non porta a nulla, l’opera rappresentata a Broadway è un fiasco – ebbene sì - e il pubblico non si immedesima. Secondo il critico Brooks Atkinson che ne scrisse sul NewYork Times nell’ottobre del 1955 infatti, “ai personaggi manca la carne, e Arthur Miller ha eliminato sé stesso dalla storia”. Inoltre, nonostante “La sua conoscenza intima della gente - le loro abitudini di vita, i loro principi, il loro idioma - siano solidi e tutto possa suonare vero, qualcosa gli impedisce di esprimere la pienezza della tragedia che il tema promette. Se la tragedia deve purificare e terrorizzare il pubblico, secondo la frase classica, i personaggi devono avere una dimensione. Il loro destino deve avere un significato spirituale. Aristotele limitava gli eroi tragici a re e regine e a persone rinomate sotto altri aspetti. Se il mondo moderno limitasse la tragedia a queste persone, avremmo ben poco da scrivere”.

Insomma, una tragedia scritta bene, fin troppo, tanto da mancare di quell’umanità che lo stesso drammaturgo vorrebbe porre innanzi a tutto. Assistendo alle rappresentazioni di Broadway Miller si rende conto che il taglio netto tra fatto (messo in scena con distacco) e commento (affidato a un narratore estraneo alla vicenda) che volevano rappresentare un presupposto di estraneità dell’autore nei confronti dei personaggi e del loro modo di agire era un artificio. Lo stesso assillo che lo aveva portato ad occuparsene, di quei personaggi e delle loro vicende, costituiva la prova che anche in questo caso lo scrittore era molto più legato alla materia drammatica di quanto non credesse e che la storia narrata non era quella di un “mostro” abnorme, ma di un uomo, e per certa misura di tutti noi.

Poco male, il dramma viene riproposto l’anno dopo a Londra, così come lo leggiamo e vediamo oggi, e il successo è immediato. Gli atti sono diventati due e c’è una piacevole fusione tra distacco e partecipazione, tragedia e dramma, realismo e astrazione, il testo è arricchito da intenzioni non sempre realizzate e da un pessimismo di fondo ben presente nelle opere del drammaturgo.

La vicenda ci viene narrata già conclusa dall’avvocato Alfieri (“un brav’uomo”), il primo a presentarsi sulla scena per raccontare i fatti che sappiamo subito già avvenuti. Per tornare alla tragedia, il vecchio avvocato pare aver la funzione di un coro greco, come ci fa notare il regista e protagonista dell’ultima messa in scena Massimo Popolizio. Narratore e rappresentante della legge - a cui per primo non crede, Alfieri è anche il Ponte del titolo perché italiano d’origine ma cresciuto in America, e quindi testimone dello scontro di queste due civiltà. Osserva e racconta dall’alto questo dramma che ha per tema principale «la legge» in un clima di caccia agli immigrati clandestini.

Sarà in Europa, come detto, che il testo avrà più successo. E per capirlo va fatta un’ultima digressione. Qui dopo la guerra sbarca quel teatro statunitense originale rappresentato dallo stesso Arthur Miller e Tennessee Williams, incentrato sulla rilevanza sociale. Nel teatro di Miller e Williams c’è uno sguardo emotivo, soggettivo, che si compenetra a tratti realistici dell’esistenza materiale, e che viene accentuato dallo stile di recitazione dell’Actors’ Studio, che insiste sull’espressione fisica di intense verità psicologiche. Gli uomini di cui parlano sono messi da parte nella gerarchia sociale del capitalismo, messi da parte dal sistema cui hanno per sbaglio dedicato la vita. E questa è la figura chiave del teatro americano del dopoguerra. Il devastante attacco di Miller al sogno americano costituirà l’argomento classico della drammaturgia americana successiva. Ma nessun americano dopo di lui però è riuscito a eguagliare l’integrità morale della sua opera, la sua passione politica, basata sull’insanabile conflitto tra l’esigenza dell’individuo di difendere la sua personalità più autentica e le richieste di una società materialistica e repressiva.

I testi di Williams e Miller furono messi in scena nelle più grandi città europee che durante la guerra erano state tagliate fuori dai mutamenti che avvenivano all’estero. Fino a che punto questi drammi costituissero una provocazione, lo dice la reazione dell’establishment britannico: ritenuti immorali, i drammi di Williams poterono essere rappresentati a Londra solo in club privati, mentre A view from the Bridge di Miller, a causa di un bacio fra omosessuali, fu giudicato troppo sovversivo per essere messo in scena!

Il Prezzo, di Arthur Miller

RSI Cultura 06.04.2017, 08:02

  • teatrodilocarno.ch

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