Arte

Architetti siate realisti, chiedete l’impossibile

Abitare l’immaginazione è stato lo spirito che ha animato il mondo della progettazione architettonica tra gli anni Sessanta e Settanta... passando dal ‘68

  • 4 agosto, 15:08
  • 5 agosto, 10:57
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Friedensreich Hundertwasser

Di: Romano Giuffrida

«Collaborate affinché siano abrogate le leggi criminali che reprimono l’architettura libera e creativa! (…) La gente ancora non sa che è un diritto decidere dell’aspetto tanto degli abiti che porta quanto delle case in cui abita. (…) Da quando ci sono urbanisti indottrinati e architetti standardizzati, le nostre case …nascono già concepite e costruite come case malate. Tolleriamo migliaia di questi edifici privi di sentimento ed emozioni, dittatoriali, spietati, aggressivi, sacrileghi, piatti, sterili, disadorni, freddi, non romantici, anonimi, il vuoto assoluto. Danno l’illusione della funzionalità, sono talmente deprimenti che si ammalano sia gli abitanti che i passanti». Il brano è tratto dal Manifesto per il boicottaggio dell’architettura: indovinate in quale anno è stato scritto e pubblicato? Facile: il 1968. Quell’anno, infatti, anche il mondo dell’architettura venne attraversato dallo spirito libertario e rivoluzionario che, in ogni dove, rimetteva in discussione dogmi, istituzioni e accademismi che fino ad allora erano sembrati indiscutibili.

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Ridefinire i linguaggi disciplinari e il ruolo dell’architetto: è sulla base di queste parole d’ordine che presero vita riflessioni e progettazioni di tipo diverso, ma accomunate tutte dalla volontà di rappresentare l’immaginazione al potere.

A fianco del versante politico del Maggio che coinvolse gli architetti soprattutto in materia di edilizia popolare e di politiche urbanistiche (che nel corso del tempo avevano generato in tutta Europa un vero proprio “problema casa” con un numero elevatissimo di “senza tetto”), dal punto di vista progettuale si delinearono esperienze nelle quali lo slogan «Siate realisti, chiedete l’impossibile!» trovò un’adeguata e coerente relizzazione.

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Friedensreich Hundertwasser (1928-2000), l’autore del Manifesto per il boicottaggio dell’architettura, ad esempio, si ribellò alla forma anonima e senza decorazioni che aveva standardizzato gli edifici cittadini in impersonali cubi di cemento. Hundertwasser, considerato un caposcuola della cultura ecologica applicata all’architettura, a quei “cubi” oppose innanzitutto l’autogestione degli spazi abitativi: «Ogni architetto ha il sacrosanto dovere di riconoscere che ciò che ha realizzato non è affatto finito, ma piuttosto una semplice ossatura a cui gli inquilini dovranno dare una forma … ». All’inquilino inoltre disse: « È tuo diritto modificare secondo il tuo gusto la finestra e, fin dove arriva il tuo braccio, anche il muro esterno». L’architetto austriaco si propose anche di portare “la foresta nella città” facendola crescere in ogni luogo possibile. Nel 1973, per la Triennale di Milano, “mise in scena” la sua idea con un’installazione intitolata L’albero inquilino che si concretizzò nella piantumazione di quindici alberi nei palazzi di via Manzoni, in pieno centro cittadino.

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Dieci anni dopo, il Mago della vegetazione (come gli piaceva farsi chiamare), a Vienna realizzò Hundertwasserhaus, un complesso di case popolari caratterizzato non solo da pareti curve e multicolori, ma anche da alberi che escono dalle finestre e da giardini pensili che regalano “cascate” di verde. Come non riconoscere in tutto ciò il vento della controcultura californiana degli anni ‘60? Come non riconoscere cioè quella ricerca di “altre” forme di esistenza individuale e collettiva che gli hippy immaginarono per una liberazione totale dai capestri del mondo omologato e burocratizzato? In quell’epoca di grandi rivolgimenti socioculturali si affermò così ciò che Germano Celant, critico e storico dell’arte, chiamò “architettura radicale”, identificando in questo modo quella nuova forma di progettazione che aveva frantumato i confini tra le arti e i saperi, dando vita in modo visionario e utopico a nuovi rapporti tra forma e estetica.

L’architettura radicale fu soprattutto una ricerca d’avanguardia che indicava una molteplicità di tematiche, interpretate a volte in chiave utopica, altre volte fantascientifica o addirittura irrazionale.

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Gruppo 9999 – Casa orto (particolare della presentazione del progetto in Italia - 1971)

In Italia, ad esempio, il gruppo 9999 ossia Giorgio Birelli, Carlo Caldini (1942-2017), Fabrizio Fiumi (1943-2013), Paolo Galli, propose la Casa Orto (presentata in occasione della mostra Italy: The New Domestic Landscape presso il MoMA, il Museo d’ Arte moderna newyorkese, nel 1972). Il progetto ipotizzava un’abitazione ecologica in cui l’orto andava a integrarsi allo spazio abitativo.

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  • arch. Kishō Kurokawa – Tokio, Nakagin Capsule Tower

Di segno radicalmente opposto (è il caso di dirlo) le progettazioni del Movimento Metabolista giapponese. «Lasciateci nutrire innumerevoli nuove utopie»: è un’affermazione tratta dal manifesto Metabolismo: Proposte per un nuova urbanistica scritto da questo movimento, nato agli inizi degli anni Sessanta, con l’obiettivo di proporre un’architettura e un’urbanistica capaci di accompagnare la continua trasformazione della società. Da questi concetti nacque la Nakagin Capsule Tower, progettata da Kishō Kurokawa (1934-2007), all’inizio degli anni Settanta. La torre, costruita a Tokyo, vide la prima applicazione del concetto di capsula abitativa.

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  • arch. Kishō Kurokawa – Tokio, Nakagin Capsule Tower (Interno)

L’edificio è composto infatti da 140 “capsule” di dimensioni ridotte ai minimi termini (2,3 x 3,8 x 2,1 m) caratterizzate da un oblò che costituisce l’unica finestra dell’abitazione. Secondo l’architetto le abitazioni così concepite sarebbero state in grado di rispondere alle necessità dell’uomo del futuro sottoposto sempre più ad una vita veloce e nomade.

Non tutte le idee di “nuove case” e “nuove città” che vennero immaginate osando l’impensabile furono ovviamente realizzate (troppa la fantasia che le aveva nutrite…). Si sappia però che migliaia di quei progetti sono conservati in archivi e studi di architettura in attesa che qualche “architetto ribelle” dia loro nuova vita. Ci sarà? 

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