Ricerca di una propria identità. Nel passato, nel futuro, da affermare, da dimenticare, da capire. Identità che si perdono in altre, identità frammentate. Attorno a questo tema girano molti degli spettacoli del FIT 2023, il festival di teatro internazionale di Lugano.
Il Fit è un festival che nel tempo, siamo alla 32esima edizione, si è sempre smarcato dalla stagione ufficiale portando le voci contemporanee dal resto del mondo, in un clima di maggiore libertà e schiettezza. La critica alla società è aperta, il pubblico non va imbonito ma se possibile svegliato (spesso scioccato a volte annoiato, ma questo è il gioco), con scelte che è vero qui nella nostra timida piazza paiono coraggiose, ma altrove sono assodate. Come negli ascorsi anni, il Festival apre poi in realtà quella che sarà la stagione ufficiale di teatro del Lac. Ma lo fa alla guisa di uno spettacolo pirotecnico, scombina le carte, apre le menti e soprattutto chiama tanto pubblico a teatro. Le proposte sono parecchie, e quest’anno a metà strada c’è stata anche la cerimonia per i Premi Svizzeri della scena 2024 (tra cui spicca anche l’operatrice ticinese Tiziana Conte), in un bel clima di festa.
Cosa ci portiamo a casa dal FIT 2023?
Patriarcat , il quarto spettacolo della Winter family dopo quattro anni a da H2 – Hebron che abbiamo visto e amato nel 2019. La performance della famgilia di artisti, il cui lavoro complesso è un ibrido tra documentario e installazione teatrale e sonora, è questa volta molto più intima (il patriarcato è infatti individuato e messo alla gogna tra le soffocanti pareti di casa durante il confinamento) rispetto alle precedenti, anche se con un impatto non meno violento. Come già in passato, terreno primario è l’esperienza reale, in un gioco tra l’autofinzione - e chi vi sfugge oggi? – e il documentario, che sfocerà in un rituale vero e proprio, con tanto di effetto catartico, all’insegna dello smascheramento, anche in anime insospettabili, di tracce di patriarcato. Come incrostature dure a levare.
La coppia formata da Ruth Rosenthal e Xavier Klaine, con la figlia Roselai, si muove in un claustrofobico spazio. Tra le consolle di lavoro, i microfoni e i computer – i due, lei di Gerusalemme lui di Maxéville (Nancy), compongono musica minimal; tra le poltrone deformate, gli sciaquoni continui, i piani da cucina dove campeggia la ciotola con la farina, tra pacchi Amazon che arrivano per posta e sessioni di yoga, decodifichiamo immediatamente l’ambiente e ci sentiamo a casa. Si sposta ingombrante, con una tuta nera da pollo gigante e l’immancabile casquette, Xavier. Inizia a leggere un monologo che poi porterà avanti per tutta la prima metà dello spettacolo, vagando su una litania di lamenti e recriminazioni attorno alla moglie e qualche volta alla figlia, sfogo di frustrazione e insulto facile. Si sonda così la violenza gratuita e ordinaria del patriarcato in una coppia progressista. Il monologo è ciononostante frizzante, strappa sorrisi che poi ricacciamo – siamo pubblico progressista pure noi – subito in tasca, e via libera all’indignazione scandalizzata. È un condensato, rimontato e maneggiato, di tutte le frasi che durante due anni di confinamento Xavier ha pronunciato contro Ruth. Lei le ha registrate, lui si prende la briga di ridirle in questa forma, anche perché – racconterà a fine spettacolo – è facile fare la morale come artisti, nei propri spettacoli, meno far vedere parti che invece vorremmo tenere nascoste, meschine e spiacevoli.
Nella seconda parte Ruth intraprende una via distante, poetica, radicale e fluida, uno sguardo misticamente superiore. Ci fa uscire dalla dinamica dei Padri – ‘che uccidono le donne e bruciano la terra’. Un racconto evocato che ha radici lontane e fa presagire il vero e proprio sabba delle streghe che ci aspetta: Ruth gioca con le luci, accende infiamma sposta, fa divampare la scena. Arriva poi Saralei, la filgia adolescente (da cui la necessità di questo spettacolo contro il patriarcato, asserirà Ruth) che snocciola a voce alta nomi date e morti di presunte streghe dal Medioevo in poi, dall’Olanda a Salem. E noi, che sospiriamo pensando di trovarci di fronte al solito elenco, ci troviamo ad ascoltare i femminicidi degli ultimi anni. La catarsi è assicurata, mentre sul fondo, Ruth viene issata al centro della scena (evocando l’impiccagione), gonna nera lunga, anfibi e tamburello, in un esplosione di suoni e luci. Basta un attimo, la figlia estrae dal pacco di Amazon una Nerf (arma giocattolo) e uccide il padre e la madre.
Morte del patriarcato? Per una sera forse, il tempo di uno spettacolo. Poi ricomincerà.
Uno spettacolo improbabile e composto da parti disequilibrate, che non lascia lo spettatore indifferente anche se alcune cose gli sfuggono (e sembrano sfuggire agli artisti stessi) come l’improvvisa presenza di una piovra gigante sul palcoscenico. Poca armonia tra le parti (che sembrano scritte da persone diverse), l’impressione che ci manchi qualcosa a livello drammaturgico, la domanda – legittima – se quanto abbiamo visto sia scaturito da una reale necessità o dalla moda del momento. Ma siamo usciti da teatro pieni di domande e questo è sempre buon segno. Qui l’identità della famiglia è passata ai raggi X, senza sconti né abbellimenti.
Le altre identità del Festival
A raccontare la nostra imperfezione, la ricerca di un posto nel mondo, i giochi della memoria e la genesi di un’opera, c’è anche lo spettacolo intimo e unico (simbolicamente e letteralmente, perché in pochissimi hanno potuto vederlo) di Camilla Parini (Treppenwitz) ‘Je suisse (or not)’. Con delicatezza e meraviglia l’attrice ci accompagna in veste di orso bianco tra le pagine del suo album dei ricordi, alla ricerca di una propria identità, nella sua famiglia, come persona in una società e come svizzera. Uno spettacolo da leggere e scoprire con la curiosità bambina, domande universali alle quali non si intende dar risposta, vissute nello spazio suggestivo e esteticamente iper curato del Turba di Lugano in Via Cattedrale.
Il disperato dei Wunderbaum è spettacolo che invece non ha convinto, dalla drammaturgia carente al ritmo esasperante. Si indaga l’identità di un omicida, senza però riuscire a catturare lo spettatore nonstante la prossimità della scena.
Un’identità può essere anche perduta, ricostruita, inventata, senza cessare di essere reale. È quello che accade in Alcune cose da mettere in ordine, la prima produzione del FIT per la regia dell’artista Rubidori Manshaft (Roberta Dori Puddu). Il testo è suo e di Angela Dematté, portato in scena dall’attrice Roberta Bossetti e creato nell’ambito del progetto di partecipazione culturale degli anziani Restez FIT!. Un testo importante, che regala momenti di rara verità e intensità e metafore indimenticabili, nato da una ricerca di anni a contatto con gli ospiti di case anziani; un testo che racconta la paura nell’avvicinarsi di una donna appena sessantenne all’oblio e alla perdita della realtà che la circonda. Una riflessione sul tempo e sui ricordi, a volte potente – soprattutto quando ‘dice’ di meno e tutto pesa sulle tensioni interne – a volte più sfilacciata per un sovraccarico di stimoli (il video, le opere d’arte, l’enfasi).

Vecchiaia e storie di vita
Charlot 27.04.2025, 14:35
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La dimostrazione di una potenza nell’essenziale è arrivata con l’attesa Prima svizzera di Elogio della vita a rovescio di Daria Deflorian e Giulia Scotti (in scena). La giovane attrice porta in maniera estremamente precisa su di sé la fusione di diverse identità, quella della scrittrice Han Kang, autrice de La Vegetariana (Adelphi 2007) - ma anche di un particolarissimo White Book e Atti umani – dei suoi personaggi, di sé stessa. Ritroviamo l’immediatezza d’eloquio della Deflorian, limpida nella sua apprente confusione, ed è quasi tangibile la passione che lega le artiste all’autrice sudkoreana. Elogio della vita a rovescio è la prima produzione di un progetto biennale che porterà in scena il capolavoro della Kang, l’inizio di una ricerca tra i suoi testi. In una scena povera, microfoni pendenti, e sacchi di farina di riso, emerge la bravura indiscutibile della Scotti e la forza di un testo che anche se confonde, è preciso e ci racconta più di quanto si immagini.
FIT 2023
Alphaville 05.10.2023, 11:00
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Young and Kids
Da segnalare anche il concorso Young and Kids composto da quattro spettacoli dedicati alle nuove generazioni, vinta dalla compagnia Dimitri/Canessa con l’Orso felice, e i progetti paralleli come Waste Kompost radio a cura di Alan Alpenfelt e la presentazione dei testi di Luminanza 2023.
Tra la grande qualità e tutte queste identità cosa ci è mancato? Paradossalmente la comunione. In fondo una delle caratteristiche che l’arte scenica ha implicite è proprio il vivere un’esperienza collettivamente, un rito da condividere. Sulla scena questo avviene sempre, in un festival sarebbe auspicabile succeda anche fuori dal teatro. Ma a fine spettacoli, l’energia si è spesso dispersa nella fredda piazza. Come sempre e in queste occasioni più che mai, è mancato uno spazio spontaneo e umano dove continuare a vivere i mondi scoperti, scambiare opinioni, cercare significati, pregettare il futuro, creare ponti. Il FIT si conferma ogni anno un bellissimo festival, ma corre il rischio di diventare una rassegna più che una festa, anche se l’approfondimento con gli artisti del dopospettacolo è ancora occasione di scambio prezioso e nonostante l’apertura eccezionale e importante della torretta Enderiln al Tassino a opera di Ticino is Burning.

Turné va in scena
Turné 07.10.2023, 19:38