Böcklin, non a torto, è considerato uno dei più grandi esponenti del simbolismo. Ma la classificazione «simbolismo», come ogni altra classificazione, riduce radicalmente lo spessore simbolico presente nei quadri del pittore svizzero. E questo lo sapeva bene Mallarmé, esponente di spicco della declinazione lettereraria delle corrente artistica, allorché affermava che irretire una poesia con un nome significa sopprimerne il godimento. Del resto, la felicità dell'arte sta nell’indovinarne «poco a poco» i segreti senza mai afferrarla per intero: si tratta di «suggerire, ecco il sogno».
Ma prima di rappresentare il mondo dei sogni, Böcklin dove passare dal classicismo di Poussin, con i suoi colori brillanti e i soggetti mitologici – soggetti che non abbandonerà mai. Come molti prima e dopo di lui, Böcklin subisce il fascino dell’Italia e dell’arte rinascimentale (e la costante nostalgia e i numerosi viaggi per la penisola ne sono la prova).
Villa italiana in primavera, 1875
Tuttavia non soggiorna in modo permanente in Italia, anche se gli ultimi anni fino alla morte nel 1901 li vivrà a Firenze; si può dire che Böcklin, nonostante viaggi per diversi paesi d’Europa, divida il suo tempo tra Svizzera, Italia e Germania, dove conosce personaggi tutt’altro che ignoti: ricordiamo solo Jacob Burckhardt col quale stringe amicizia a Basilea intorno al 1850 (sarà proprio lo storico a suggerire al pittore un viaggio alla scoperta del Rinascimento italiano) e Gottfried Keller, col quale interloquisce nel suo periodo a Zurigo. D’altro canto anche l’influenza tedesca ha il suo peso nell'opera dell'artista svizzero, in particolare nella sua ultima fase, allorché abbandonerà i tratti apollinei del mediterraneo per approdare alla visione fantastica, frutto di quello che in psicologia si chiama inconscio.
Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872
Va detto che la pratica pittorica di Böcklin si discosta sin da subito dalle tendenze naturalistiche e realistiche dell’epoca, ed anche dal nascente impressionismo. La sua attenzione, spesso scambiata per ingenuità e ignoranza rispetto al contesto artistico a lui contemporaneo, è rivolta a mostrare la presenza di quel che non c’è e che non potrà esserci nemmeno nei suoi quadri. I volti mitologici e letterari dei suoi dipinti poco aggiungono all’atmosfera cromatica e compositiva che sulla tela, in silenzio, vi dimora. Non sorprenderà dunque sapere che il pittore basilese avrà forte influenza su De Chirico.
Il colore di Böcklin, spesso preparato artigianalmente, è agli antipodi rispetto a quello immediato dell’en plein air allora in voga. Qui la lentezza della preparazione trionfa nell’intensità ipnotica del colore. E questo appare con evidenza in quell’opera che nasce con il titolo di Un luogo tranquillo, per poi trovare la sua epifania internazionale sotto il nome di L’isola dei morti. Si dice che il pittore sarà così preso da quest’opera che, nonostante gli fosse stata commissionata, non vorrà separarsene. Nell’arco di sei anni, per il successo riscosso in tutta Europa, gliene saranno commissionate altre quattro da diversi committenti di rilievo nel panorama politico e culturale. Il potere incantatorio de L’isola dei morti III è indubbio: nelle sale della Alte Nationalgalerie di Berlino, ancora oggi, afferra e tiene avvinto lo sguardo, ed è proprio in questo istante che l’immagine conquista presenza reale mentre tutto ciò che la circonda nella sala diventa incerto e labile come in un sogno. L’opera produce un tale silenzio, un silenzio tanto onirico quanto reale, che Böcklin avrà ragione nel dire che bussare alla sua porta fa paura.
Il santuario di Ercole, 1880
I suoi quadri, presaghi di un mondo oscuro, hanno la forza e il carattere tipici della tomba, luogo di incontro tra il regno dei vivi e il regno dei morti. La sua arte si apparenta così alla pittura primordiale. I cipressi sono qui l’accesso al mondo dei morti, o dei sogni, ma non nel senso che ne daranno surrealisti mezzo secolo più tardi, gravido di libido e automatismi. I sogni di Böcklin sono simili a quelli di coloro che, nei tempi antichi, dormivano presso le tombe per sentire (attraverso i sogni) le voci degli antenati, i quali non si discostavano dagli dèi. Un’atmosfera indefinita di un mondo altrettanto indefinito, che si fa percepire solo velatamente in una giustapposizione di colori.
E poi c’è la chiara influenza di Friedrich, dal quale tuttavia il pittore svizzero si discosta praticando, con non poca sottigliezza, una virata estetica che lo elegge al suo fianco. Là dove nel pittore tedesco scorgiamo gli sterminati spazi, in Böcklin tutto è racchiuso tra cipressi e mura. Una strettezza tra le cui sponde si creano echi infiniti. E questo ci consegna a un naufragio diverso da quello di Friedrich: qui non ci perdiamo nella lontananza e nella vastità, ma nei recessi abissali che si dischiudono anche in spazi, esigui, a misura d’uomo.
Primavera in una gola stretta, 1881
Il regno dei morti, potenzialmente infinito, ci impone la sua presenza non da un mare o un cielo sterminati, ma dall’interno di un isolotto roccioso. I confini e le cornici delle pareti e degli alberi praticano una tensione interna che si condensa in angusti passaggi aprendo a un ritmo quieto e incessante. E a differenza delle vastità nelle quali ci si perde facilmente, i passaggi stretti e bui non sono solo difficili e sfuggenti, ma esigono concentrazione. Alcuni quadri potrebbero essere definiti esoterici, non però per le bianche figure che vi compaiono (intente a praticare sinistri rituali), bensì per il culto del mistero che è tutto condensato nei cipressi, e qua e là nella pietra. E questo esoterismo non necessita di alcuna segreta iniziazione, se non quella dell’occhio.
Il bosco sacro, 1882
Böcklin vuole far sognare, sussurrando tuttavia delle verità che non possono essere pronunciate né pensate, ma solo accennate (l'oracolo non dice, ma accenna, affermava del resto Eraclito). Per questo le interpretazioni, in particolar modo della Toteninsel, sono molteplici– e solo questo dovrebbe bastare a vestire quest’opera con gli abiti regali dell’arte. Böcklin mostra quel che della natura sfugge, e qui emblematica può essere, ancora una volta, la celebre frase di Klee: «L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile» (Paul Klee, Confessione creatrice, Abscondita 2004).
Per chi conosce i cipressi di Van Gogh risulterà facile notare la differenza: questi sono luminosi e docili, anche se vibranti; quelli di Böcklin sono invece tremendi e selvaggi, come la natura fuori dal dominio umano, sia quando sono piegati dai venti delle coste, sia quando riposano quieti come immobili custodi dei misteri. I cipressi appaiono come porte o colonne, si stagliano con pesantezza sugli sfondi chiari come se assorbissero (chissà da dove) ogni luce senza più rilasciarla. Anche nel chiarore della luce meridiana e dell’architettura italiana la loro presenza impone una Stimmung sinistra, che ci fa dubitare di essere svegli. Böcklin è il bianco traghettatore che ci conduce alle porte di un regno vasto e oscuro, custodito all’ombra dei cipressi. E noi sentiamo che quanto più questo regno sprofonda nella natura tanto più penetra dentro di noi, e allora diventa chiaro che ci troviamo sullo stesso abisso della nostra anima. L’ombra dei cipressi, a questo punto, non fa più paura. Ed è possibile guardare al mistero che essa emana con lo stesso sguardo (affascinato ed eccitato) dei bambini che di fronte alla porta della camera proibita rinunciano a bussar, ma non per paura, bensì per un’innata saggezza e un senso poetico che impediscono loro di romperne il silenzio e l’incanto, perché sanno che la bellezza (ed il senso) sta tutta lì, nell’essere sospesi un po’ di qua e un po’ di là, su questa soglia.