In questa Biennale Teatro dal sapore impalpabilmente poetico e al contempo concretamente corporeo, dove il corpo dell’attore (ma non solo) è stato rimesso al centro del palco per restituire la poesia al teatro, il viaggio che propone Willem Dafoe è tra passato e presente, tra Storia e Futuro. Un’edizione che impone un certo “fare il punto”, questa cinquantatreesima, a mezzo secolo da quella così iconica ronconiana del 1975, dove confluirono tra le avanguardie e realtà fondamentali che ancora oggi rappresentano un tassello imprescindibile della Storia del Teatro e continuano a ispirare. Per dire, Romeo Castellucci è figlio di questa storia, ma anche Thomas Ostermeier per un certo verso, o Thom Luz, per citare uno dei tanti artisti svizzeri presenti in Laguna quest’anno.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/arte/Incontro-con-Romeo-Castellucci--2266932.html
Accanto a personaggi noti, della storia e del presente, si ergono timidamente anche tre nomi che rappresentano il futuro. Artisti che si sono smarcati durante i College della scorsa edizione (la ‘scuola’ voluta da Antonio Latella durante la sua direzione artistica sopravvissuta, proprio per la sua efficacia, alla direzione che ne è seguita di Ricci/Forte e poi questa ora di Dafoe), e che una volta selezionati grazie ai loro lavori hanno avuto la possibilità di essere co-prodotti e presentati qui. Per poi, chissà, cominciare a viaggiare sul serio.
https://rsi.cue.rsi.ch/cultura/arte/In-ricordo-di-Luca-Ronconi--2691002.html
Li siamo andati a vedere, li abbiamo voluti conoscere da vicino, abbiamo voluto ascoltare dalle loro parole il loro lavoro perché è proprio in queste loro creazioni che in realtà si può leggere e respirare la contemporaneità più sincera. A volte forse più naïve, meno controllata, non perfetta, materiale grezzo nel quale certo non si può trovare la perfezione (se esiste) ma che di sicuro restituisce un reale sguardo sul mondo.

Mariasole Brusa - Golem_e fango è il mondo
Mariasole Brusa, vincitrice di Biennale College Regia, porta in scena un mito ebraico (con tutte le implicazioni che può avere oggi farlo) e crisi climatica, in uno spettacolo, Golem_e fango è il mondo, che con estrema poesia conferisce al fango la forza propulsiva della ricostruzione. In un mondo in cui gli effetti della crisi climatica si fanno sentire anche sottoforma di tragedie climatiche, Mariasole Brusa racconta dell’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna nella primavera del 2023. Lo fa attraverso un teatro di figura che lei conosce bene, pochissime parole in una drammaturgia scandita fondamentalmente dal movimento delle marionette e da dispositivi scenici. In scena fango e archetipi.
Ma nell’ideazione, è arrivata prima la materia o il mito?
«Il Golem è un archetipo mitico molto antico, l’uomo plasmato dal fango, la vita plasmata dal fango, e il bisogno umano di controllare la natura, un desiderio che si trasforma in qualcosa di distruttivo. Per noi è molto attuale la suggestione drammaturgia e poetica di questo mito. Siamo arrivati qui dalla materia, perché abbiamo vissuto l’alluvione in Emilia Romagna. In quei momenti surreali di distruzione sono entrata in contatto con la materia e mi ha affascinata, l’ho trovata bella tra le mani, tra le dita. Si scioglie e si secca, dà voglia di plasmare. In quei momenti ho sentito fortissima l’ambivalenza del fango come materia creatrice, non a caso da sempre l’uomo mette le mani nel fango per costruire, e materia distruttrice perché abbiamo sperimentato il potere distruttivo della natura imprevedibile.
Parlare di Golem nel 2025 è diverso, è scoppiata la guerra a Gaza e noi portiamo in scena un mito ebraico che parla di un essere creato per proteggere, diventa distruttivo. Come succede spesso nell’arte, questo spettacolo ha assunto un significato che non gli avevamo dato all’inizio. Parla dell’umanità, della distruzione, in questo momento storico in cui oltre al cambiamento climatico c’è un genocidio in atto, è importante riflettere sulla necessità di costruire, nella distruzione ».
Che rapporto ha Mariasole Brusa con il teatro di figura?
«È un teatro che amo tantissimo, un approccio visuale, una drammaturgia visiva, la ricerca dell’organicità e dello sguardo, si tratta di animare la materia, oggetti antropomorfi come burattini, marionette, pupi, sagome d’ombra. L’approccio ad animare, significa uscire dall’umano, pensare che il performer finisce più in là. Oltre all’appoggio di un linguaggio verbale e cercando l’universalità di un linguaggio emotivo che possa coinvolgere. Una delle soddisfazioni maggiori per me in questo lavoro qui in Biennale è aver portato il teatro di figura fuori dal mondo del teatro per ragazzi, dove solitamente viene relegato ».

Jacopo Giacomoni - Silvia Costa - Tacet
Jacopo Giacomoni con Tacet invece racconta il silenzio. Curioso ossimoro per questo giovane talentoso drammaturgo vincitore del bando drammaturgia di Biennale College che si propone in una piuttosto complessa drammaturgia di andare a sviscerare il silenzio. Da quel minuto di silenzio che spesso abbiamo condiviso a quello che mal sopportiamo sulla scena, dal silenzio di un corpo morto - c’è davvero? - a quello di John Cage. Da quello raffigurato a quello toccato, insomma, quella che costruisce Giacomoni attraverso il suo testo è una cattedrale del silenzio che tramite arrovellamenti e elucubrazioni, ricordi e passioni arriva fino ad alte vette.
Gli abbiamo voluto chiedere, come e perché costruire questa drammaturgia e anche, in cotanto silenzio, perché anche tanta musica?
«Il tentativo, la sfida di questo testo, era parlare del silenzio senza lasciare mai lo spazio di viverlo del tutto se non alla fine. Per costruirlo, il testo, sono partito dal tempo, per me un’ossessione teatrale. Credo sia la materia di cui è fatto il teatro e di cui abbiamo più bisogno, sia come pubblico che come autori. A me piace costruire delle strutture rigide entro le quali muovermi più o meno liberamente. E qui la struttura da cui sono partito era semplicissima: una persona dice di essere un minuto. Quel minuto è diventato il metro su cui far giocare tutto il resto dello spettacolo! Mi sono chiesto quale fosse il minuto più denso di significato nella storia, e sono arrivato al minuto di silenzio. Un rito laico di cui non ci preoccupiamo granché e di cui sappiamo davvero poco. Ho poi pensato che la ricerca doveva approfondire ancora di più l’esperienza di silenzio a teatro, come incontro scenico con lo spettatore. Quindi ho ipotizzato un museo di silenzi in cui poter raccogliere alcuni silenzi che per me erano stati importanti nel percorso. Da lì al terzo movimento che invece è un’osservazione di silenzi. Cosa significa? L’idea che il tempo potesse spezzarsi e non ci fosse solo un minuto ma anche un milione di anni, un secolo, come ritmo dello spettacolo. L’ultimo movimento è il più atipico: John Cage e il re-inact del suo concerto più atipico che ha fatto anche in Italia, molto contestato al teatro lirico di Milano».
Questo denota un forte legame con il mondo della musica…
«Ho iniziato a fare teatro attraverso la musica, suonando in scena (Giacomoni è sassofonista n.d.r.). Questo è rimasto molto nel mio lavoro perché ho iniziato a comporre testi come se fossero partiture, mi piace chiamarle le cartografie del tempo. Quindi anche come gestire un coro di silenzi. Avere come base di partenza la musica mi aiuta a livello ritmico».

Athos Mion, Arturo Cirillo - Orge per George
Dalla musica al silenzio, alla cacofonia poi dei corpi. Da un concetto astratto come il tempo e il suono, alla concretezza del piacere del corpo e delle perversioni. Un salto pindarico, sia per temi che per stile, ci collega (o scollega) da Giacomoni a Athos Mion, altro drammaturgo vincitore del bando drammaturgia con Orge per George. Un testo che nel raccontare il girovagare e partecipare di un Ragazzo a un orgia, alla ricerca di George, dice molto delle perversioni umane e della necessità di approfondire i contatti, non solo attraverso il piacere ma attraverso la conoscenza. Un testo intelligente, ironico, scandaloso e irriverente, che piace perché quella profondità di senso trasuda da ogni doppio senso, che ci mette di fronte a uno specchio, anche se di orge non siamo pratici.
Cosa cerca in realtà il Ragazzo che partecipa?
«È, siamo, alla ricerca di una narrazione alla quale appartenere e riconoscerci. Il ragazzo cerca George ma cerca anche il modo di relazionarsi, di avere un’affettività. In questo mondo dove se ne parla molto poco, di affetto, sarebbe già tanto, di sessualità si parla molto meno e perversioni ancora meno, sono solo tabù come se la gente non ne avesse, è importante avere accesso a altre narrazioni».
Come è stato recepito questo testo?
«È un lavoro fortunato. Sono diversi anni che ci lavoro e quando ho letto il bando per la Biennale l’anno scorso mi sembrava potesse calzare. Ho scritto il cuore del testo, l’anno scorso, e poi ho sottoposto 10 minuti alla giuria. Ero molto timoroso di espormi con un testo così personale, ma poi in giuria ho sentito ridere! Durante l’anno mandavo regolarmente il testo a Davide Carnevali, mio tutor, che me lo correggeva. Ci vedevamo durante l’aperitivo, e questo testo è veramente imbarazzante da leggere così, a tavolino, in maniera neutra!
Sulla scena 12 allievi della scuola per Attori del Teatro di Napoli, diretta da Arturo Cirillo, che cura la regia del testo. Un’occasione felice perché il coro musicalmente, attorialmente, umanamente, è splendido».
Quanto la lettura giovane e partenopea ha aggiunto un ulteriore strato al tuo testo?
«Quando mi è stata proposta la collaborazione con il Teatro di Napoli ero titubante, allievi non formati, chissà se a livello di resa avrebbe funzionato? Vedendoli poi in costume, nelle prove, mi hanno fatto pensare immediatamente al Risveglio di primavera di Wedekind. Ha creato questa immagine naïve dell’orgia, che si fa in gioventù con spirito vitale. Io l’avevo scritto immaginandola in maniera più oscura, con persone tutte diverse, pure con un leone in scena! Invece con questi ragazzi vestiti bene, puliti, l’immagine si è uniformata».
Insomma, tre lavori ben distinti che raccontano di stili polifonici e poliedrici, di necessità variate, di un’aderenza al tempo e allo spazio tutti contemporanei, che speriamo di vedere presto anche su altre scene.

La poesia del corpo lungo 50 anni di teatro
Charlot 08.06.2025, 14:35
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