Teatro

Le momò: il teatro di Andrea Cosentino

Una sorta di cameretta dell’infanzia dove i giocattoli appaiono perennemente a ventre aperto, con gli ingranaggi esposti

  • 14 settembre, 14:18
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  • Foto: Margherita Mase
Di: Daniele Bernardi 

Chiacchiero con Andrea Cosentino attraverso una video-chiamata mentre sono in pausa pranzo e la calura imperversa. Incorniciato nel riquadro del teleschermo, l’artista romano – ma di origini abruzzesi – mi sembra interpretare se stesso in una delle repliche di Telemomò, esilarante e grottesco «spettacolo-format» che, dal 2007, va in scena con durata variabile nei contesti più disparati e per il quale, nel 2018, l’attore-autore è stato insignito di un Premio Speciale Ubu alla carriera.

Classe 1967, Cosentino si è avvicinato al teatro quasi per caso, quando, dacché fantasticava di diventare regista cinematografico («guardavo Fuori orario, Enrico Ghezzi, i film kazaki… ‘ste cose qua»), negli anni ‘80 partecipa a un laboratorio di Dario Fo presso la Libera Università di Alcatraz a Gubbio. Per quanto apparentemente lontane da creazioni quali Mistero buffo o da altre “giullarate”, come quelle del premio Nobel per la letteratura del 1997 le sue performances sono appunto imperniate su una drammaturgia orale che, nella dimensione dell’assolo, «intensifica al massimo il rapporto col pubblico»: «più passano gli anni», racconta mentre discutiamo, «più sento che il teatro non è l’opera in sé, ma la relazione con gli spettatori». 

Dopo un percorso da indipendente e autodidatta che lo ha visto frequentare innumerevoli atelier, Cosentino ha seguito una formazione lecoqiana col clown-didatta Philippe Gaulier per poi approdare, a percorso concluso, alla sua prima creazione in solitaria: Amleten Verboten (1991).

Da allora il suo destino di solista lo ha portato a ideare moltissimi spettacoli, il cui centro di interesse è la destrutturazione narrativa in quanto cifra stilistica. Per chi non lo conoscesse, il teatro di Andrea Cosentino si presenta infatti come una sorta di cameretta dell’infanzia dove i giocattoli appaiono perennemente a ventre aperto, con gli ingranaggi esposti, quasi a voler mostrare – sempre ludicamente, ma non senza inquietudine – le viscere malcelate di una società che lascia intravedere il torbido di ciò che ha prodotto.

Barbie tronche, resti di manichini, bambolotti, pupazzi, brutte parrucche; ma pure marionette nel cui viso subito scorgiamo il buon Artaud (Artaud le Mômo, appunto), un più classico Pulcinella e Papa Wojtyla: sono questi i tipici, riconoscibili elementi che compongono la scena cosentiniana – scena che non a torto, ai suoi esordi, negli anni in cui, con Balliani, Paolini e Celestini, il teatro di narrazione era in auge, qualcuno ha definito come dichiaratamente «anti-narrativa».

«Quando ho iniziato a fare spettacoli non c’era una scena istituzionale – come sempre – che potesse accogliere nuovi autori e nuove idee. Il mio teatro, in fondo, nasce da una reale povertà di mezzi dalla quale ho cercato di estrarre uno stile: per mancanza di soldi non c’erano gli attori ma i fantocci, non c’erano le scenografie ma i giocattoli. Molto presto però di questa condizione ho rilevato le questioni poetiche e politiche ad essa sottese. Così i miei spettacoli sono diventati il racconto di uno spettacolo che sto facendo senza realmente poterlo fare».

In virtù di quanto dichiarato dall’artista, tutte le creazioni di Andrea Cosentino, da Antò le momò (1999) a Rimbambimenti (2022) passando per L’asino albino (2003), Angelica (2005), Primi passi sulla luna (2010) e Trattato di economia (2016), sono quindi, per forza di cose, giocate sul bordo di una rappresentazione – sospesa tra la gag clownesca e un «teatro di figura degradato» – in cui il performer, volutamente, non si cala appieno e attorno alla quale dà voce a un pubblico ragionamento.

Suo protagonista costante è quella televisione commerciale – col suo linguaggio – che, dagli anni ‘80, come una sorta di grande «madre coccodrillo», ha allevato generazioni invischiate nella cieca spinta all’omologazione profetizzata, a suo tempo, da autori quali Pasolini ed Ezra Pound. Ad essa, successivamente, si sono affiancati altri mezzi di comunicazione quali oggetto di critica creativa da parte dell’artista, come l’arte contemporanea o il teatro stesso.

Ma in che modo nascono, nella pratica, spettacoli come Telemomò o il più recente Rimbambimenti? Come mettere in prova qualcosa di giocato essenzialmente sulla relazione col pubblico?

Ebbene, ci rivela l’artista, si tratta di creazioni «molto pensate e poco provate». Il tempo di gestazione di un’idea e dei suoi sviluppi può protrarsi per un anno e anche di più, mentre il suo riscontro alla prova dei fatti si gioca in poche settimane e sempre in presenza di qualcuno, mai in piena solitudine. Va da sé che un lavoro può ritenersi rodato e pronto non tanto al debutto, quanto dopo una buona serie di repliche che abbia permesso all’attore di testare la propria “macchina” dal vivo. «Questa», ci dice ironicamente Cosentino, «per certi versi è anche una fregatura, visto che la critica solitamente si precipita tutta a vedermi alla prima».

Oggi, a due anni dal suo ultimo lavoro, Andrea Cosentino ragiona su un nuovo progetto, del quale, infine, ci rivela solamente quale sarà il tema portante: «l’idea è molto banale: l’intelligenza artificiale. Voglio fare uno spettacolo con ChatGPT. È una cosa con cui bisogna confrontarsi e che, credo, in qualche modo rientri obbligatoriamente nel mio percorso, nel mio ragionamento sui medium di massa, il web e la velocità delle cose. Affrontiamo quindi anche questo argomento anche se, certo, inevitabilmente, ormai sempre più da boomer!».

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  • Foto: Simone Telari

Monte Mai

RSI Cultura 27.01.2023, 10:19

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