Arte

Pino Pascali, genio eclettico e dirompente

Indefesso sperimentatore, capace di dare vita a opere sempre nuove e spiazzanti. Per lui l’arte era continua invenzione, simulazione, gioco e rito

  • 7 maggio, 12:44
  • 22 luglio, 10:21
Immagine della mostra “Pino Pascali”, Fondazione Prada, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada_0.jpg

Immagine della mostra “Pino Pascali”, Fondazione Prada, Milano

  • Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada
Di: Francesca Cogoni 

Dal 28 marzo fino al 23 settembre, la Fondazione Prada ospita un’ampia retrospettiva dedicata all’artista italiano Pino Pascali (1935-1968). Curata da Mark Godfrey l’esposizione racconta la breve ma intensa carriera di una delle icone dell’arte italiana degli anni Sessanta.

Spiaggia di Fregene: un uomo sepolto nella sabbia fino al collo scuote la testa agitando la chioma riccioluta, tende il collo strizzando gli occhi e stringendo i denti, per poi emergere piano piano dalla sabbia. Quindi, immerso nell’acqua, bacia la testa di una statua classica e subito dopo l’affonda. Sono alcune scene del “reportage ironico visuale” SKMP2, girato dall’artista Luca Maria Patella nel 1968. Un film d’artista ma anche un film sugli artisti, perché suddiviso in quattro episodi, ciascuno dedicato a una personalità dell’arte. L’uomo di cui sopra era Pino Pascali, ripreso mentre inscenava alcune azioni di un “rituale di fertilità”. Una sorta di cerimonia iniziatica che rivista oggi, purtroppo, acquista un carattere amaro e per certi versi premonitore, visto che rappresenta una delle ultime testimonianze di Pascali. L’artista, infatti, non fece in tempo a vedere il montaggio finale del film, poiché morì prematuramente l’11 settembre 1968 in seguito a un incidente in motocicletta in un sottopassaggio di Roma. Mancava un mese al suo trentatreesimo compleanno. Riconosciuto come uno degli artisti più geniali e innovativi in circolazione, quello stesso anno Pino Pascali partecipava con una sala personale alla 34ª Biennale d’Arte di Venezia, dove gli fu conferito postumo il “Premio Internazionale per la Scultura”, culmine di una carriera fulminea e dirompente.

Pino Pascali non era un semplice scultore, bensì un artista eclettico e radicale, un indefesso sperimentatore capace di dare origine a opere sempre nuove e spiazzanti. Era un uomo d’arte ma anche di spettacolo, che amava esibire i suoi lavori ed esibirsi, interagendo con essi. Per lui l’arte era continua invenzione, simulazione, gioco e anche rito. Questo carattere cangiante e avanguardistico della ricerca di Pino Pascali è ben espresso e sottolineato nell’ampia retrospettiva che la Fondazione Prada di Milano ospita fino al prossimo 23 settembre. Il percorso espositivo permette di approfondire gli aspetti più emblematici della pratica dell’artista: dall’impiego di materiali eterogenei al rapporto peculiare con il medium fotografico, fino all’attenzione che Pascali riservava alle modalità espositive delle sue opere. Come spiega il curatore Mark Godfrey, infatti: «Il contributo più significativo e originale di Pino Pascali all’arte contemporanea è consistito nel suo approccio alla pratica espositiva. Per l’artista, una mostra era più che una semplice opportunità di esporre le nuove opere create in studio: era un modo per dare vita ad ambienti immaginifici. Ogni progetto espositivo doveva essere diverso dal precedente, con un’interpretazione della scultura sempre differente. Per sfuggire al cliché di uno stile distintivo, Pascali reinventava costantemente il proprio lavoro, arrivando a paragonarsi a un serpente che cambia pelle». Proprio così: in pochi anni di attività l’artista mutò pelle innumerevoli volte, sorprendendo critica e pubblico e lasciando un segno tangibile e incisivo nell’arte italiana.

Immagine della mostra “Pino Pascali”, Fondazione Prada, Milano. Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada_2.jpg

Immagine della mostra “Pino Pascali”, Fondazione Prada, Milano

  • Foto Roberto Marossi. Courtesy Fondazione Prada

Nato a Bari il 19 ottobre 1935, poco più che ventenne Pascali si spostò a Roma per studiare scenografia all’Accademia di Belle Arti, dove fu allievo di Toti Scialoja. Mentre sviluppava il proprio linguaggio, iniziò a lavorare come scenografo per diverse produzioni televisive Rai, per il cinema e la pubblicità (in alcuni casi, complici la bella presenza e il carisma, fu anche attore). La prima mostra personale si tenne alla Galleria La Tartaruga di Roma nel 1965, dove espose una serie di dipinti in rilievo ispirati alla Pop Art. Questa è una delle cinque mostre che la Fondazione Prada ha scelto di ricostruire in modo filologico nei suoi spazi, dando la possibilità di fruire e apprezzare sia le opere sia le soluzioni espositive originali che lo stesso Pascali concepì ad hoc.

Già con la sua seconda mostra personale, svoltasi alla Galleria Gian Enzo Sperone di Torino nel 1966, Pino Pascali cambiò rotta, accentuando il carattere ironico e ludico dei suoi lavori, che resterà uno dei tratti distintivi della sua ricerca. L’artista riempì la galleria con una serie di sculture che riproducevano delle armi, frutto dell’assemblaggio di diversi materiali di recupero, come parti di macchine e automobili, tubi e legno, verniciati di verde mimetico. Strumenti simil-bellici privati della loro minacciosità, oggetti ibridi in bilico tra realtà e finzione, ingegnosamente e beffardamente ricostruiti in modo artigianale.

Pascali amava cambiare prospettiva e destabilizzare le aspettative, attingendo a materiali di scarto o di uso quotidiano, che smontava e rimontava con le proprie mani, come un bambino che gioca con le costruzioni. «Sapeva incollare, segare e saldare, con rapidità e precisione. Quando era al lavoro, era in uno stato di estasi, totalmente assorto. […] Spesso si feriva, tagliava, bruciava» racconta la voce narrante nel bel documentario girato da Walter Fasano, Pino (2020), un ritratto poetico e non convenzionale dell’artista.

Pino Pascali, Vedova Blu, 1968. VI Biennale Romana, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1968. Foto di Claudio Abate © Archivio Claudio Abate.jpg

Pino Pascali, Vedova Blu, 1968. VI Biennale Romana, Palazzo delle Esposizioni, Roma, 1968

  • Foto di Claudio Abate © Archivio Claudio Abate

Sempre nel ’66, Pascali fu invitato a esporre nella galleria romana L’Attico del giovane e illuminato Fabio Sargentini, vero fulcro di sperimentazione a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, da cui transitarono artisti come Jannis Kounellis, Mario Merz, Eliseo Mattiacci, Sol Lewitt, Gino De Dominicis, Denis Oppenheim e Jean Tinguely. Di nuovo, Pascali presentò qualcosa di completamente diverso: una serie di sculture chiamate “Animali”, rievocanti mammiferi e creature mitiche, realizzate tendendo delle tele su strutture di legno. L’artista le definiva “finte sculture”. Delfini, dinosauri, draghi, giraffe e balene apparivano smembrati, spesso aggettanti dalle pareti o dal pavimento, discostandosi dalle abituali rappresentazioni e generando stupore e curiosità.

Nel 1968, Pascali tornò a esporre presso L’Attico, e ancora una volta reinventò la sua arte proponendo in questa occasione i celebri Bachi da setola, realizzati con alcuni scovoli colorati di setola acrilica usati per la pulizia delle tubature. Nell’allestimento aggiunse anche ragnatele e bozzoli di colla. Un fatto curioso è che, prima dell’esposizione, Pascali si recò nella campagna fuori Roma, insieme al fotografo Andrea Taverna, e lì si fece ritrarre nell’erba accanto ai suoi bachi. Oggi queste immagini acquistano una nota surreale e ci dicono molto sull’attitudine dell’artista, che sovente è stato definito come una specie di sciamano. «Pascali vive il fare arte come pratica magico-alchemica di trasformazione totale di sé e dello spettatore, dello spazio espositivo, dei linguaggi, dei materiali, delle funzioni dell’arte, assimilando sempre più il suo fare artistico a una pratica rituale quasi sciamanica» scrive al riguardo Anna D’Elia nel saggio Pino Pascali. L’uomo che cammina nudo (Edizioni Peccolo, 2018).

Pino Pascali con Bachi da setola, 1968. Foto di Andrea Taverna. Courtesy Fabio Sargentini – Archivio L’Attico.jpg

Pino Pascali con Bachi da setola, 1968. Foto di Andrea Taverna. Courtesy Fabio Sargentini – Archivio L’Attico.jpg

  • Foto di Andrea Taverna. Courtesy Fabio Sargentini – Archivio L’Attico

In questo continuo rinnovamento delle forme e di sé stesso, Pascali fu abilissimo nel mescolare rimandi ed elementi dell’antica cultura mediterranea con materiali e riferimenti legati alla cultura di massa e al mondo industriale: pensiamo a una delle sue sculture più iconiche, Vedova blu, un maestoso ragno in legno e pelliccia sintetica. A questo proposito, ricordiamo le bellissime fotografie di Claudio Abate che ritraggono l’artista mentre interagisce con l’opera. O ancora, pensiamo alla grande installazione 32 mq di mare circa, composta da trenta vasche quadrate di metallo colme d’acqua colorata con anilina: un’opera essenziale e profondamente evocativa. Anche in questo caso, alcuni splendidi scatti di Abate ci mostrano un’improvvisata danza di Pascali in mezzo al “mare”. E poiché si parla di fotografia, non possiamo non citare il servizio realizzato nel 1968 dal grande Ugo Mulas per la rivista L’Uomo Vogue, dove l’artista posa insieme a una delle sue ultime sculture, Cavalletto. «Pino Pascali, scultore, qui a destra, ha una maniera moderna e geniale di raccontare favole per adulti e di trasformare in arte gli elementi naturali: acqua, terra; e anche artificiali, come nel caso del suo baco da setola. […] Indossa un giubbotto con zip e jeans di velluto nero, acquistati usati al mercato di Porta Portese, con un fazzoletto di cotone giallo e arancio, e sandali di cuoio indiano» recita la didascalia della rivista.

E ancora a proposito di fotografia, segnaliamo un’altra imperdibile mostra in corso: “Pino Pascali. Disegnare la fotografia”, allestita fino al prossimo 30 giugno presso la galleria Frittelli Arte Contemporanea di Firenze.

Pur distinguendosi per il linguaggio originale e per il rifiuto di qualsiasi etichetta o imbrigliatura, Pino Pascali fu anche tra quegli artisti che parteciparono al fervido clima che portò alla nascita dell’Arte Povera, di cui oggi è considerato uno dei protagonisti. Nel 1967, infatti, Germano Celant, che dell’Arte Povera fu promotore e teorico, invitò l’artista a partecipare alla collettiva “Arte povera Im-Spazio” presso la Galleria La Bertesca di Genova, che pose le basi del movimento. Scriveva Celant nel testo di accompagnamento alla mostra: «L’Arte Povera è un’arte che trova nell’anarchia linguistica e visuale, nel continuo nomadismo comportamentale il suo massimo grado di libertà ai fini della creazione […]». Perfettamente in linea con lo spirito di Pascali.

Pino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967. Foligno, Palazzo Trinci. Foto di Claudio Abate © Archivio Claudio Abate.jpg

Pino Pascali, 32 mq di mare circa, 1967. Foligno, Palazzo Trinci

  • Foto di Claudio Abate © Archivio Claudio Abate.

Intervistato dalla critica Carla Lonzi per la rivista Marcatré nel 1967, Pascali dichiarava: «Io cerco di fare ciò che amo fare, alla fine è l’unico sistema che mi funzioni. Non credo che uno scultore faccia un lavoro faticoso: egli gioca, anche il pittore gioca; come tutti coloro che fanno ciò che vogliono. Il gioco non è solamente appannaggio dei bambini. Tutto è gioco, non è d’accordo?». E ancora, riferendosi alle sue sculture: «Ciò che è essenziale è che questi oggetti mi diano coraggio, essi sono la prova che, in fin dei conti, io esisto! Anche se si tratta di una sorta di finzione, a partire di là, io riesco a provare a me stesso che esisto, proprio perché ci credo […]».

Che usasse la rafia oppure la lana d’acciaio, che trasse spunto dal mare, che tanto amava, o dalla crescente società dei consumi, Pino Pascali credeva seriamente nei suoi “giochi”, li creava e allestiva, li abitava e indossava. Spesso, parlando della sua parabola artistica ‒ molto simile a quella di un altro anticonformista dell’arte italiana, Piero Manzoni ‒ si usa la metafora della meteora, tuttavia le meteore si estinguono, mentre l’arte e il genio di Pino Pascali continuano a brillare fulgidi e a ispirare gli artisti odierni.

10:27

Pino Pascali alla Fondazione Prada di Milano

La corrispondenza 22.07.2024, 07:05

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