C’è un punto oltre il quale l’arte non può più limitarsi a raccontare. Deve scegliere da che parte stare. A Place of Safety di Kepler‑452 non è uno spettacolo: è una presa di posizione. È un atto di disobbedienza civile travestito da teatro, un gesto che rifiuta la neutralità e rivendica il diritto – e il dovere – di guardare in faccia ciò che l’Europa preferisce tenere ai margini del quadro.
Kepler‑452, ormai riconosciuti come una delle realtà più innovative del teatro italiano, non si limita a osservare il mondo: lo abita. Per costruire questo spettacolo, i membri della compagnia Kepler‑452, ormai riconosciuti come una delle realtà più innovative del teatro italiano, si sono imbarcati sulla Sea‑Watch 5, la rotta più letale del pianeta, per “andare a vedere coi propri occhi”. È un gesto che appartiene alla loro poetica radicale: un teatro che non rappresenta, ma testimonia; che non interpreta, ma si espone. Non stupisce che A Place of Safety abbia conquistato il Premio Ubu 2025, consacrandosi come una delle opere più necessarie dell’anno.
Sul palco del Piccolo Teatro Studio Melato, fino al 21 dicembre, non vediamo personaggi: vediamo persone. Non vediamo finzione: vediamo conseguenze. Kepler‑452 porta in scena la rotta migratoria più letale del mondo non come metafora, ma come ferita aperta. E lo fa con una scelta che ha il sapore della sfida: affidare la scena ai soccorritori della Sea‑Watch 5, a chi ogni giorno strappa vite al mare mentre governi e istituzioni discutono, rinviano, si voltano dall’altra parte.
È un teatro che non si inginocchia davanti all’estetica. Che non cerca la bellezza, ma la verità. Che non vuole piacere, ma disturbare. E ci riesce, perché i corpi che si muovono in scena sono corpi che si portano addosso la memoria dei vivi e dei morti, dei salvati e dei sommersi, di chi ha avuto un nome e di chi è stato ridotto a numero in un comunicato stampa.
Kepler‑452 non osserva il mondo: lo attraversa. Imbarcandosi con la Sea‑Watch 5, la compagnia ha condiviso turni, attese, paure. Ha scelto di non parlare di qualcosa, ma da dentro qualcosa. È un teatro che si sporca le mani, che rifiuta la distanza, che non accetta la comodità dello sguardo dall’alto. E in un panorama culturale spesso anestetizzato, questa radicalità è un atto di resistenza.

“A place of safety”
Konsigli 17.12.2025, 17:45
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La scenografia è povera, volutamente. Perché la povertà qui non è un limite, ma un linguaggio. I video girati durante la missione non sono decorazione: sono prove. Sono testimonianze. Sono ciò che resta quando togli tutto il superfluo e rimangono solo la vita e la morte, la responsabilità e l’indifferenza.
Nicola Borghesi, unico attore professionista, si mette da parte. Non per modestia, ma per coerenza. Il suo ruolo è far emergere gli altri, amplificare le loro voci, lasciare che siano loro a occupare lo spazio. È un gesto politico: il teatro come luogo in cui chi è invisibile diventa finalmente visibile.
A Place of Safety non chiede allo spettatore di emozionarsi. Gli chiede di prendere posizione. Gli chiede di riconoscere la propria parte di responsabilità in un sistema che produce morti e poi li chiama “incidenti”. Gli chiede di non accettare più la narrazione tossica che trasforma esseri umani in minaccia, in problema, in statistica.
Questo spettacolo è un promemoria feroce: l’arte non è neutrale. Non lo è mai stata. E quando sceglie di stare dalla parte dei corpi vulnerabili, dei corpi che il potere preferisce invisibili, allora diventa pericolosa. Diventa necessaria.
Kepler‑452 firma un’opera che non consola, non pacifica, non addolcisce. È un teatro che ti guarda negli occhi e ti dice: non puoi più far finta di niente. E forse è proprio questo il suo gesto più rivoluzionario: ricordarci che la cultura non serve a distrarci dal mondo, ma a immergerci fino al midollo.

