Meret Oppenheim rappresenta una delle voci più libere e coraggiose dell’arte del Novecento: capace di trasformare la propria vita in un’opera continua, ha sfidato convenzioni e stereotipi con ironia e intelligenza, fondendo pittura, scultura, oggetti e performance in un percorso che non separa mai esperienza personale e creazione artistica. La sua celebre «Colazione in pelliccia» è solo l’emblema di una ricerca più ampia, che ribalta simboli e valori tradizionali per proporre nuove visioni, anticipando pratiche dell’arte contemporanea.
Come sottolinea Martina Corgnati al microfono di Emanuela Burgazzoli in Voci dipinte, «per Meret opera, vita, esperienza, percorso nel tempo non sono distinte e distinguibili», e proprio questa fusione le ha permesso di diventare «una delle stelle più luminose nel firmamento del XX secolo». L’autobiografia pubblicata da Casagrande restituisce il ritratto di un’artista ironica e poliedrica, che ha fatto della libertà e del coraggio la sua cifra più autentica.
La versione di Meret
Voci dipinte 07.12.2025, 10:35
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Nata a Berlino nel 1913 da padre tedesco e madre svizzera, si trasferisce giovanissima a Parigi, dove entra in contatto con l’avanguardia surrealista. Come ricorda Martina Corgnati, «il movimento surrealista le dà sicuramente la possibilità di confrontarsi con il contesto più stimolante in assoluto disponibile all’epoca e anche il meno misogino». In un ambiente dominato da figure maschili, Oppenheim riesce a farsi notare per talento e originalità.
Nel 1936 nasce l’opera che la renderà celebre: «Colazione in pelliccia», una tazza rivestita di pelo che diventa icona del Surrealismo. L’idea, racconta l’artista, nacque durante una conversazione al Café de Flore con Picasso e Dora Maar: «commentano che tutto si potrebbe rivestire di pelliccia. Anche questa tazza e cucchiaino». Un’intuizione fulminea che Oppenheim realizza subito, creando un oggetto che sfida le convenzioni e gioca con l’inconscio.
Meret Oppenheim, Colazione in pelliccia, 1936
Ma ridurre la sua carriera a quest’opera sarebbe ingiusto. «Per Meret opera, vita, esperienza, percorso nel tempo non sono distinte e distinguibili», osserva Corgnati. La sua produzione spazia dalla pittura alla scultura, dagli oggetti alle performance. Questa versatilità, se da un lato ha complicato il rapporto con il mercato tradizionale, dall’altro le ha permesso di anticipare pratiche tipiche dell’arte contemporanea.
L’autobiografia, scritta in terza persona con stile asciutto, ripercorre le tappe fondamentali della sua vita. Emerge il ritratto di un’artista determinata a seguire la propria strada, anche a costo di sacrifici. Emblematico il racconto della fine della relazione con Max Ernst, che Oppenheim decide di lasciare per preservare la propria indipendenza: «un grande amore che avrebbe limitato la mia possibilità di diventare me stessa».
Il testo rivela anche momenti di crisi. Colpisce il racconto della depressione degli anni ’30: «Non so più se agivo bene o male, mi sentivo perseguitata, non ero più sicura di niente». Una fase dolorosa che l’artista riuscirà a superare, considerandola «la base della mia crescita futura». Fondamentale in questo percorso è l’incontro con il pensiero di Carl Gustav Jung, che la definì «molto dotata» e destinata a superare le difficoltà giovanili.
L’autobiografia si interrompe nel 1954, quando la crisi sembra ormai superata. «Probabilmente a continuare chissà non ne ha avuto tempo… è un progetto in parte realizzato e in parte no», spiega Corgnati. Pur incompiuto, il testo offre uno sguardo prezioso sul percorso umano e artistico di Oppenheim.
Interessante anche la genesi di opere successive, come «Il vecchio serpente Natura» del 1970. «Non è solo ironica ma anche una riflessione profonda sul ruolo simbolico del serpente, che per Meret Oppenheim era positivo. È un ribaltamento dei valori cristiani», osserva Corgnati. Il serpente diventa simbolo di saggezza naturale, contrapposto alla visione negativa della tradizione cristiana.
Il vecchio serpente Natura, 1970
Il libro edito da Casagrande si rivela un documento prezioso per comprendere meglio il percorso dell’artista e riflettere su temi più ampi: il ruolo delle donne nell’arte del Novecento, il rapporto tra vita e opera, la ricerca di un’identità autentica. Come sottolinea Corgnati, Oppenheim è stata «una delle rare artiste davvero ironiche della storia dell’arte». La sua ironia si riflette nelle opere e nel modo di vivere l’arte, senza mai prendersi troppo sul serio ma perseguendo con determinazione i propri obiettivi.




