Arte

Questa non è la recensione di una mostra

Quando l’arte contemporanea parla di teatro. Paul Fritz allo Spazio Lampo: un’installazione che dà voce al dietro le quinte e riflette sulla crisi e la resistenza del teatro contemporaneo

  • Ieri, 17:00
DSC_1694.jpg

Scatto dalla mostra "Backstage & Hospitality"

  • Sarah Mathon
Di: Elisabeth Sassi 

Volendo prendere la Biennale Arte di Venezia come luogo in cui convergono gli sguardi contemporanei sull’arte, negli ultimi anni essa ha mostrato come i linguaggi si contaminino sempre più e come l’arte visiva guardi con insistenza al teatro. Nel 2022, per esempio, Gian Maria Tosatti trasformava il Padiglione Italia in Storia della notte e destino delle comete, un viaggio nella memoria industriale del Paese concepito come un gigantesco set teatrale da attraversare.

Nella scorsa edizione, l’artista uzbeka Aziza Kadyri ha invece rielaborato le esperienze delle donne dell’Asia centrale, immaginando le proprie identità durante il processo di migrazione attraverso un’installazione che si presentava come una quinta teatrale decostruita, dove i costumi diventavano sculture e lo spazio era un palcoscenico aperto alla voce collettiva del gruppo Qizlar di Tashkent e al pubblico, protagonista inconsapevole.
Sono solo due esempi che mostrano come l’arte contemporanea, per raccontare il presente, senta il bisogno di misurarsi con lo spazio scenico e con le dinamiche del teatro. Ma cosa accade se il teatro stesso attraversa una crisi profonda?

La scorsa estate, Ursina Lardi, nel discorso di accettazione del Leone d’Argento alla Biennale Teatro di Venezia, riportava parole che l’hanno segnata: «del teatro si parla sempre meno e sempre più a fatica». Una constatazione amara, che la regista e attrice svizzera accompagnava con una riflessione lucida: non si tratta soltanto di tagli e finanziamenti ridotti, ma di un lento scivolamento di rispetto e considerazione verso chi fa cultura. «Siamo ridicolizzati, dichiarati inutili, superflui e innocui – questo è ciò che più ferisce, più di ogni censura, più di qualsiasi forma di pressione», affermava Lardi.

22:02

Ursina Lardi, versatilità e rigore

Laser 07.07.2017, 11:00

Eppure, mentre il teatro vede restringersi il proprio spazio nel discorso pubblico e nella società, allo Spazio Lampo di Chiasso è accaduto qualcosa di prezioso. Dal 12 ottobre all’8 novembre 2025, Paul Fritz presenta la sua prima personale in Ticino, Backstage & Hospitality, un’installazione che porta il pubblico non solo nello spazio del “dietro le quinte”, ma che è anche un omaggio alle figure professionali invisibili che rendono possibili gli spettacoli. Il lavoro di Paul Fritz, già avviato con la serie Talking Wounds, intreccia tecnologia, figure animatroniche e critica culturale. Ciò che solitamente resta nascosto – il lavoro invisibile della tecnica, l’attesa, la fatica dietro la scena – diventa protagonista. L’artista ci ricorda che il teatro non è solo lo spettacolo, nel suo arco temporale effimero, ma è una comunità composta dalle maestranze che lo rendono possibile: dalla tecnica all’ospitalità.

Entrando nello spazio espositivo, la prima cosa a balzare all’occhio è la ferita, riproposta per tre volte. Ci sono tre manichini, ciascuno seduto nella medesima posizione sopra a un baule da teatro: il busto sporto in avanti, indosso la tuta da lavoro. La felpa col cappuccio copre i loro volti, mentre con una mano tengono sollevato l’orlo per mostrare la schiena e la ferita. Un taglio nella pelle iperrealistica, che somiglia a quella indossata proprio da Ursina Lardi in Die Seherin, lo spettacolo diretto da Milo Rau. A teatro, Lardi - che interpreta una fotoreporter - si incide con un bisturi la pelle dello stinco e, con un cellulare, riprende e proietta sullo schermo grande quanto la quinta l’operazione chirurgica dalla quale sgorga sangue finto.

La ferita presente sui manichini di Paul Fritz, invece, è profonda ma netta, larga circa sette centimetri e a fuoriuscire non è sangue, ma sono delle voci. Ogni due minuti le ferite si attivano, muovendosi come a mimare delle bocche pitturate di rosso; da queste bocche, come fantasmi, escono le voci nasali e metalliche di Maša, di sua madre Polìna Andrèevna e del maestro, Medvèdenko. Le parole sono quelle del IV e ultimo atto de Il gabbiano di Anton Čechov. «Le ferite diventano così punti d’ascolto più che superfici visive: fenditure emotive che accolgono la parola e la restituiscono come eco. È un modo per parlare di teatro senza metterlo in scena, per evocare i personaggi senza incarnarli», spiega la curatrice Sibilla Panzeri durante l’inaugurazione.

DSC_1379.jpg

Scatto dalla mostra "Backstage & Hospitality"

  • Sarah Mathon

Con la sua pratica che intreccia tecnologia, scenografia e riflessione critica, Paul Fritz interroga le possibilità della manipolazione e dell’influenza dell’arte, offrendo a chi visita lo spazio un’esperienza sospesa tra fascinazione e inquietudine, utilizzando un linguaggio e degli strumenti familiari al pubblico del teatro contemporaneo. La macchina che si cela dietro alla ferita, per esempio, potrebbe essere un marchingegno simile a quello utilizzato da Romeo Castellucci nel suo I mangiatori di patate, presentato sempre quest’anno a Venezia. “Il becco”, così veniva chiamata dietro le quinte quella bocca metallica dal cast dello spettacolo: un becco dal quale uscivano parole confuse e storpiate, un suono graffiante e tenebroso che abitava qualsiasi corpo, animato o non.

E così come il corpo nudo e cereo dell’attrice in scena (Laura Pante), interamente ricoperto da una pittura bianca che non solo apporta un significato al suo personaggio, ma si insinua tra le pieghe delle pelle della persona - che inevitabilmente porterà con sé quel segno, andando ad abbattere il confine tra scena e vita al di fuori del teatro - anche la ferita sulla schiena di manichini che compongono l’opera di Paul Fritz rappresenta non solo la fatica (sono infatti poste sulle schiene ricurve), ma anche come gli spettri del teatro che ci abitano, ci modellano attraverso le parole che memorizziamo con il corpo, che riportiamo nel mondo anche senza essere attori e attrici in scena.

DSC_1733.jpg
  • Sarah Mathon

Questo è ciò che più m’interessa dell’opera di Fritz: la riflessione sul teatro come un agire di senso condiviso e ancora capace, a volte, del suo aspetto sociale più ancestrale - una catarsi che non solo vorrebbe espiare la violenza, ma che è in grado di generare prospettive nuove. Perché questo accada, però, serve che - chi scrive critica, soprattutto - non dimentichi nessuno e non si lasci abbagliare dai protagonismi generati dalla società dello spettacolo.

Tra le battute scelte appunto da Paul Fritz, una in particolare di Medvèdenko è significativa: «È buio in giardino. Bisognerebbe dire che abbattessero quel teatro. Sta lì nudo, informe, come uno scheletro, e il sipario sbatte per il vento. Quando ieri sera ci sono passato accanto, mi è parso che qualcuno là dentro piangesse». La citazione cechoviana ci ricorda che il teatro può sembrare abbandonato, ma conserva ancora le voci di chi lo ha abitato. Riflettendo sull’installazione, verrebbe da dire che il teatro di Kostja - solitario, autoreferenziale, mosso da rivendicazioni esclusivamente personali - è arido: se fosse un dipinto, sarebbe rappresentato forse da uno dei corpi scheletrici ma d’oro agghindati di Klimt. Perché ritorni la luce, su quel giardino, sul teatro, una chiave potrebbe essere proprio illuminando le quinte.

Come a chiudere un cerchio, tornano le parole di Ursina Lardi, pronunciate sul palco della Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian. L’artista ricordava che, in tempi come questi, ogni gesto autentico, ogni sfumatura, ogni forma di sensibilità diventa un atto di resistenza.

E proseguiva: «In un clima come questo, ogni pensiero sfumato, ogni volto sensibile, ogni gesto di tenerezza, ogni tono lieve e sottile si impone come una presenza irrompente, disturba e agisce come mezzo di contrasto. E, quindi, sì: ha una sua logica che oggi è politicamente in voga banalizzarci e tentare di prosciugarci. Ora più che mai, noi, protagonisti dell’arte e della cultura, dobbiamo unirci, stringerci in solidarietà e opporci ai tentativi di metterci gli uni contro gli altri nelle imminenti lotte per la distribuzione delle risorse. Sì, dobbiamo confrontarci - sul palcoscenico e fuori - con tutte le questioni urgenti che la nostra contemporaneità ci impone, ma non dobbiamo ridurci a un semplice riflesso delle discussioni o decisioni politiche: questo potere su di noi non dobbiamo concederlo. Per questo: torniamo all’arte quanto prima».

1:25:27

Kappa

Kappa 15.10.2025, 17:00

  • Sergio De Laurentiis

Correlati

Ti potrebbe interessare