La storia degli Anelli del Potere inizia nella Seconda Era della Terra di Mezzo, dopo la vittoria degli Elfi sull’oscuro signore Morgoth.
Oppure, più prosaicamente, nell’anno 2017, quando uno degli uomini più ricchi del mondo (il terzo, a quei tempi), spende 250 milioni per assicurarsi i diritti di una serie TV ambientata nell’universo narrativo creato da J.R.R. Tolkien. Già: Jeff Bezos, fondatore di Amazon, è un grande fan del Signore degli anelli.
Nel 2017, Netflix aveva ormai dimostrato che quello dello streaming di contenuti video era un mercato più che promettente, e Disney e Apple stavano lavorando per lanciare le loro piattaforme proprietarie, che avrebbero preso forma concreta un paio d’anni dopo. Amazon era già presente con il servizio Prime Video, ma nei primi anni di duello con Netflix, non era riuscita a produrre contenuti originali capaci di reggere il confronto con quelli del principale concorrente. Allo stesso tempo, in quel periodo sembrava che il fantasy potesse avere le carte in regola per sostituire il genere supereroico, una volta che il pubblico si fosse stufato dell’epica Marvel che, praticamente da sola, reggeva in quegli anni il business hollywoodiano. Il successo mostruoso del Trono di Spade aveva dimostrato che il fantasy televisivo poteva diventare una miniera d’oro, con una serie da 23 milioni di spettatori a episodio nei soli Stati Uniti (nonché la più piratata della storia secondo il Guinnes dei primati). Dunque, quale brand più forte poteva esistere, per chi avesse voluto investire sul fantasy, di quello tolkieniano? Lo hobbit e Il signore degli anelli avevano venduto decine di milioni di copie nella seconda metà del Ventesimo secolo, ma erano conosciuti anche dalle generazioni più giovani, grazie agli adattamenti di Peter Jackson, capaci di incassare sei miliardi di dollari/euro/franchi nei cinque continenti. Bezos, insomma, non aveva dubbi.
Gli anelli del potere e la famiglia Tolkien
Alla fine di una lunga trattativa, Amazon ha ottenuto la possibilità di raccontare storie ambientate prima del Signore degli anelli e dello Hobbit, ma basate solo sui due romanzi e sulle loro appendici – non, per intenderci, sul Silmarillion, sui Racconti incompiuti e sulle altre opere ricostruite da Cristopher Tolkien, figlio dell’autore, nei decenni successivi alla morte di suo padre: Cristopher, morto nel 2020, non aveva mai voluto cedere i diritti su quei libri alla televisione. E a dirla tutta, considerava molto male anche gli adattamenti cinematografici di Peter Jackson, almeno a giudicare da una delle sue rarissime interviste – a Le Monde, nel 2012 – nella quale aveva dichiarato: «Hanno sventrato il libro, trasformandolo in un film d’azione per 15-25enni […] Tolkien è diventato un mostro, consumato dalla sua popolarità e assorbito dall’assurdità dei tempi. L’abisso che si è aperto tra la bellezza e la serietà dell’opera e ciò che è diventata è incredibile. Un tale grado di commercializzazione riduce a nulla il significato estetico e filosofico di questa creazione. Mi resta solo una cosa da fare: girare lo sguardo da un’altra parte.»
L’atteggiamento di Cristopher non era certo una novità: docente di inglese a Oxford, dalla metà degli anni Settanta si era dedicato quasi esclusivamente alla cura dei lasciti letterari di suo padre, che proteggeva gelosamente – fino ad arrivare a una rottura radicale con suo figlio Simon, che invece vedeva di buon occhio gli adattamenti cinematografici prima e televisivi poi. Non stupisce che lo stesso Simon Tolkien sia diventato, dopo la morte di Cristopher, consulente degli Amazon Studios per la produzione della serie, insieme a diversi altri accademici, esperti della materia, illustratori come John Howe.
L’approccio apparentemente corretto dal punto di vista filologico di Amazon nascondeva la necessità di tener calmi i fan più incalliti, e far loro digerire l’idea che inevitabilmente – anche considerando l’impossibilità di rifarsi direttamente agli scritti curati da Cristopher Tolkien – il margine lasciato agli autori della serie per inventare nuove storie sarebbe stato molto ampio. Non è bastato, e durante la prima stagione sono piovute critiche feroci, riassumibili nel titolo di uno dei tanti articoli usciti sull’argomento: se le opere di Tolkien erano la Bibbia, questa serie è una litania di peccati. Non voglio dilungarmi troppo sulla qualità di questo adattamento, e mi permetto solo di dire che, se si lascia perdere ogni pretesa di correttezza assoluta rispetto al materiale di partenza (i tradimenti ci sono, e anche qualche lapsus), si può godere della ricchezza – parola non causale – della produzione. Manca, però – almeno al momento in cui scrivo, e cioè intorno ai tre quarti della seconda stagione – un motore drammatico degno di questo nome: non basta riempire la sceneggiatura di discorsi magniloquenti, e le inquadrature di ambientazioni digitali accuratissime, per ottenere l’epica.
Dalla Peak TV alla Blockbuster TV
Detto questo, ciò che appare più interessante nella vicenda di Gli anelli del potere è la cesura che rappresenta all’interno della storia della televisione americana. Il New York Times, all’epoca dell’uscita della prima stagione, aveva scritto che quell’uscita segnava l’apice e la fine dell’era della cosiddetta Peak TV. Negli ultimi vent’anni, infatti, le serie televisive hanno rosicchiato gran parte del potere dell’industria cinematografica, dirottando l’attenzione degli spettatori dal grande al piccolo schermo – e le risorse economiche degli studios di conseguenza. Un movimento che può essere diviso in tre fasi: Prestige, Peak e Blockbuster TV.
La Prestige TV corrisponde alla prima epoca delle grandi storia drammatiche capaci di mostrare al mondo hollywoodiano che le serie del ventunesimo secolo erano molto più che la versione aggiornata dei vecchi telefilm: dai Soprano al Trono di Spade, passando per The Wire, Breaking Bad e House of Cards, le serie televisive hanno cominciato a spostare budget sempre più importanti, a colpire profondamente l’immaginario collettivo, a creare nuove star come mai era successo prima. L’era dei cosiddetti prestige drama si è trasformata in Peak TV, quando alla qualità si è aggiunta la quantità: alla fine degli anni Dieci, era diventato normale contare centinaia di produzioni annuali, con Netflix che da sola ne totalizzava più di 300. La terza era, quella che viviamo oggi, sembra essere quella della cosiddetta Blockbuster TV: la ricerca, da parte dei servizi di streaming, di produzioni kolossal, capaci di smuovere le masse e soprattutto generare nuovi abbonamenti – l’unica metrica importante per società quotate come quelle di streaming. Da questo punto di vista, la scommessa di Amazon sembra essere la più importante di questa nuova era: 50 milioni di dollari di spesa media a episodio, per lasciare un segno indelebile nella storia della televisione.
Jeff Bezos è riuscito nel suo intento? Per ora, no. Gli ascolti della prima stagione sono stati più che soddisfacenti, almeno secondo i dati diffusi dalla stessa Amazon Prime Video, che, come quelli di tutti i concorrenti, sono non verificati e non verificabili: bisogna andare sulla fiducia. Ma l’indice di abbandono – utenti che non finiscono di vedere la stagione per intero – è stato clamorosamente alto, oltre il 60%. E soprattutto la serie sembra aver fallito nel creare quella rilevanza culturale che Il trono di spade era riuscita a ottenere, quella che ti mette in mezzo ai discorsi quotidiani, che ti fa diventare luogo comune, meme (entrambi da intendere in senso positivo): una rilevanza necessaria, per la serie che sembrava destinata ad aprire la nuova era dell’intrattenimento casalingo americano. Invece, secondo molti è possibile che le piattaforme di streaming comincino a puntare i loro budget più sull’acquisto di eventi sportivi live (nel caso di Amazon, il calcio della Champions League o il football americano dell’NFL) che sulla produzione di serie originali. Vedremo come andrà.
"Il Signore degli anelli - Gli anelli del potere", Seconda stagione
Amazon e il business dello streaming
Dal punto di vista degli affari, quello che appare in crisi è in generale il modello che le società di streaming hanno cavalcato nel corso dell’ultimo decennio: abbonamenti relativamente economici in cambio di un mare di contenuti originali, che richiedevano investimenti continui. La sostenibilità di quel modello è sempre stata in discussione, e anche il più ottimista degli azionisti, alla lunga, ha cominciato a spingere per alcuni cambiamenti. Che si sono materializzati in diverse forme: aumento dei prezzi, taglio degli abbonamenti condivisi, introduzione della pubblicità durante la visione. E tuttavia, Amazon ha dalla sua una irriducibile diversità: non è una media company. Amazon vende altro: la possibilità di acquistare dal seme di mela alla panchina in granito (200 chili), con l’abbonamento Prime che serve a farlo senza pagare costi di spedizione (per i paesi in cui è possibile, quindi non in Svizzera). Prime Video è quindi, nella quasi totalità dei casi non-elvetici, un fringe benefit compreso nell’abbonamento.
Preso atto di questa diversità, l’ambiente economico in cui si muovono le produzioni targate Prime Video rende differente anche il modello di business, che potrebbe portare Amazon a diventare la prima azienda che fa davvero soldi con lo streaming.
Non solo in modo indiretto, e cioè considerando che lo streaming (soprattutto ora che comprende eventi sportivi in diretta) aumenta il valore del pacchetto Prime, e potrebbe convincere più utenti a sottoscriverlo, aumentando la possibilità che questi ultimi facciano acquisti su Amazon (un abbonato Prime acquista circa il quadruplo della merce rispetto a un cliente non-sottoscrittore, secondo le statistiche).
Film, telefilm e gli altri contenuti video hanno anche il potenziale per diventare una fonte di guadagno diretta, prima di tutto grazie alla pubblicità. Amazon ha infatti un vantaggio competitivo non indifferente: mentre Netflix usa un modello di pubblicità “frontale” ancora relativamente generico, Amazon dispone di una quantità enorme di informazioni sulle abitudini d’acquisto dei suoi clienti, e può usarle per bersagliarli con annunci altamente personalizzati. Inoltre, può misurare in modo molto più preciso di altri l’efficacia di quegli annunci, visto che spesso vende sulla sua piattaforma gli stessi prodotti che vengono pubblicizzati. Gli spot televisivi sono sempre stati ritenuti tra i più efficaci per raggiungere i consumatori, ma il loro impatto ai tempi della televisione generalista era certamente più difficile da misurare. Oggi, con i dati in mano ad Amazon, gli inserzionisti possono misurare come i clienti rispondono ai loro spot, quasi in tempo reale.
Poi c’è il discorso che riguarda i contenuti di terze parti: all’interno della piattaforma Prime Video, infatti, il singolo spettatore può scegliere di abbonarsi a ulteriori canali streaming a pagamento, da Paramount+ a Mubi. Se un cliente si abbona a uno di questi servizi tramite Prime, acquista o noleggia un singolo contenuto, Amazon si prende una fetta del ricavo. È, in fondo, lo stesso modello che Amazon ha usato per l’e-commerce: offrire la sua vetrina al commercio di altri. Oggi due terzi degli acquisti su Amazon sono a vantaggio di venditori terzi, con la piattaforma che prende una commissione senza fare quasi nulla. Un’idea facilmente applicabile anche ai video. Non bisogna dunque chiedersi quante persone abbiano apprezzato Gli anelli del potere, ma quanti si siano iscritti a Prime Video per vederlo, e abbiano poi acquistato altri contenuti. Ecco perché avere un marchio forte – come quello del Signore degli anelli – per attirare nuovi utenti è più importante per Amazon che per altre aziende, ed ecco perché Amazon può permettersi di spendere di più. Chissà cosa avrebbe pensato Cristopher Tolkien, di questo ulteriore, impensabile grado di commercializzazione delle opere di suo padre…