Cinema

La Grande Mela. Marcia.  

A distanza di 50 anni, Taxi Driver è un cocktail di talenti capace di raccontare con le parole, la musica, gli occhi e il cinema una New York - e un’America - allo sbando

  • Oggi, 11:30
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Di: Alessandro De Bon 

Nel 1975 New York è allo sfascio: governo delle gang, violenza e corruzione à la carte, un milione di abitanti persi in poco più di un anno… la Grande Mela è marcia e la notte i vermi escono. Tra loro, per insonnia, la notte esce pure Travis Bickle, 26 anni, che verme non è ma tra i vermi e in quel marciume si ritrova, catapultato dal Vietnam in un America che non riconosce. È il 1976 e negli USA, dopo aver trionfato a Cannes, esce in sala Taxi Driver, di Martin Scorsese. Trentaquattro anni lui, trentatre Robert De Niro, che di Travis Bickle è la faccia, ma soprattutto gli occhi. Un film che è tornato in sala rimesso a puntino dal primo all’ultimo fotogramma e che per gli strambi giri che fanno la storia e la società, sembra tornare di un’attualità disarmante.

Taxi Driver è un film montato sugli occhi di Travis Bickle/Bob De Niro. Da lì parte, lì dentro si perde e lì finisce, in bilico tra il non credergli e il volerli chiudere per sempre. Travis è l’America che non si riconosce, che si chiede quando e dove ci si sia persi per strada qualcosa, se non tutto. Ex marine, dall’altra parte del mondo Travis ha visto il peggio possibile. Esattamente quello su cui l’America e il cinema americano, la New Hollywood dei Penn, Spielberg, De Palma & Co. si sta seriamente interrogando, mettendosi in discussione e ribellandosi. Eppure tornato a casa qualcosa non torna, nemmeno lì. O forse soprattutto lì. Per quel che ha dovuto vedere, fare e sopportare in Vietnam Travis non riesce a dormire, vive d’incubi svegli e decide di investire quel tempo morto (letteralmente) facendo il tassista di notte. E di notte New York, nel 1975, dà il peggio di sé. E capirlo è un attimo, perché a inizio film, Travis è l’unico a non essere insopportabile.

Taxi Driver è un film che si sveglia la notte e inizia a girare, senza meta. Al massimo qualche isolato, ma nessun programma a lunga distanza, nessun obiettivo a lunga gittata, un qui e ora ridotto al minimo, e vien da dire “per fortuna”, per quel che succede lì, e ora. Perché la notte è viva, sì, ma quella vita è profondamente malata. Che sia una prostituta di tredici anni (Jodie Foster) o un tradimento guardato dal semaforo, niente sembra andare per il verso giusto, e alla lunga, per quello sbagliato, ci finisce pure Travis.

Taxi Driver è un film sulla disillusione e la solitudine; sul peso specifico della solitudine in un’esistenza in bilico, aggrappata con le unghie a quel verso giusto, ma che senza nessuno che ti veda, ascolti e ti allunghi una mano non può che precipitare. Perso il calibro in Vietnam, Travis si muove in quella solitudine, tra orecchie sorde e occhi giudicanti, con l’impaccio e l’ingenuità di un tardo adolescente cresciuto, convinto che portare una ragazza a vedere un porno al primo appuntamento possa essere un programma come un altro. Rifiuto, incomprensione, psicosi. Armi. E quando nulla sembra più avere il senso del limite e niente sembra più saper restare in equilibrio, passare dal subire un rifiuto in amore all’immaginare un attentato al candidato alla presidenza degli Stati Uniti basta è un fiato.

Cinematograficamente parlando Taxi Driver è un infuso di talenti. Alcuni verdi (Scorsese, De Niro ma pure Harvey Keitel), alcuni meno di un germoglio (Foster), altri già alti come sequoie, come Bernard Herrmann, che sugli occhi di Travis Bickle ha scritto la sua ultima partitura per il cinema dopo aver musicato - tra i tanti - Orson Welles, Francois Truffaut e Alfred Hitchcock. Tra quelli appena sbocciati, giusto per non farsi mancare nulla, pure un certo Paul Schrader alla sua seconda sceneggiatura, che quattro anni dopo avrebbe di nuovo messo nero su bianco Robert De Niro tra le pagine di Toro scatenato (1980). Svezzato da Brian De Palma con Ciao America! (1968) e Hi, Mom! (1970), battezzato proprio da Scorsese con Mean Streets (1973) e cresimato da Francis Ford Coppola con Il padrino - Parte II (1974), Robert De Niro arriva nella New York di Taxi Driver con gli addominali allenati ma gli occhi ancora vergini. Attore capace di fare il tassista di notte per davvero, per capire l’effetto che fa, è pure un ragazzo d’America che quell’America la soffre sul serio (e continuerà a soffrirla, Cannes 2025 docet). Travis Bickle è l’altra faccia di Alfredo Berlinghieri. Stesso 1976, due set: da una parte Martin Scorsese, dall’altra Bernardo Bertolucci, da una parte Taxi Driver, dall’altra Novecento, da una parte gli Stati Uniti, dall’altra un’Italia da unire. E per noi, da questa parte dell’Atlantico, è pure Ferruccio Amendola e il suo indimenticabile “Ma dici a me?”. In ogni caso, Bob De Niro.

Taxi Driver è il cinema giallo, nero e rosso trent’anni prima di Quentin Tarantino. E nonostante la censura abbia provato a desaturarlo, il sangue è protagonista indiscusso di uno dei finali più disperati, soli e disillusi della New Hollywood. Un cinema in movimento, in viaggio verso un’America che sappia allontanarsi da quel qui e ora in cui un disturbo post-traumatico sembra coincidere con la società. Il laureato, Easy Rider, Gangster Movie o Taxi Driver che sia, negli anni ‘70 i film viaggiano, vanno, camminano, macinano chilometri. E - di nuovo - fanno il giro, tornando al punto di partenza, all’inizio. A una violenza primordiale, al western, alle creste mohicane e agli scalpi, alla polvere da sparo. E chissenefrega se il cavallo ha il tassametro. 

02:48

Robert De Niro

Cultura 06.02.2024, 11:46

  • Lorena Pianezza e Debora Huber

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