L’Eternauta (Netflix)
Serie nata da uno dei fumetti più importanti della storia mondiale, produzione ovviamente argentina, livello di difficoltà alto. Perché non solo hai a che fare con una storia mitica, ma anche con una storia ormai vecchia. E allora, cosa fa lo showrunner Bruno Stagnaro? La trasferisce ai giorni nostri, nella Buenos Aires del (più o meno) presente, facendo storcere un po’ il naso ai puristi - ma solo all’inizio, perché poi si capisce che lo spirito della storia è perfettamente rispettato. E soprattutto, è raccontato con l’acceleratore della tensione sempre a tavoletta.
È, in qualche modo, giusto che L’Eternauta sia diventato una serie televisiva: è stato un fumetto molto importante ed estremamente popolare, capace di rappresentare un’epoca e un paese. E oggi lo streaming, le serie, hanno preso il posto del fumetto: sono grandi narrazioni pop, che raggiungono una grande diffusione, non vogliono essere difficili, ma spesso riescono a essere raffinate nella costruzione. Una volta per raggiungere i ragazzi si doveva fare un giornalino, in edicola in milioni di copie, oggi una serie televisiva, in milioni di case e milioni di ore di streaming. Ma in fondo, è la stessa cosa.
Rivedere oggi questa storia prendere una nuova forma significa ritrovare un capostipite assoluto della fantascienza post-apocalittica, senza il quale non ci sarebbero poi stati Ken il guerriero, Mad Max, The Last of Us e centinaia di altre storie. Si è parlato molto della crisi della fantascienza, ma il genere è sempre incredibilmente vitale. Tanto che basta ripescare una vecchia storia per dire cose nuove sul presente, per intrattenere, e riflettere su chi siamo e dove stiamo andando. Mica vero, che di serie belle non ne fanno più.
Scissione (Apple TV+)
La seconda stagione di Scissione, uscita a inizio 2025, spinge ancora più a fondo l’intuizione che aveva reso la serie così perturbante: l’idea che il lavoro non sia solo un ruolo che interpretiamo, ma una vera e propria linea di frattura dell’identità. Se nella prima stagione la separazione tra “innie” (quelli all’interno) e “outie” (quelli all’esterno) funzionava come un esperimento concettuale, nella seconda diventa uno specchio deformante – ma riconoscibile – della vita reale.
Nella quotidianità di molti, la distinzione tra chi siamo sul posto di lavoro e chi siamo fuori è già marcata. Linguaggi diversi, emozioni filtrate, comportamenti adattivi: al lavoro indossiamo una versione funzionale di noi stessi, spesso più prudente, più docile o più competitiva. Severance porta questa dinamica all’estremo, rendendola chirurgica e irreversibile, ma non la inventa. La serie amplifica una sensazione diffusa: quella di “lasciare parti di sé” all’ingresso del luogo di lavoro.
Una metafora distopica della vita lavorativa che, però, presenta per contrasto la soluzione: cadere nel tranello per cui la “scissione” avvenga effettivamente, ci renderebbe poco responsabili della sua reale attuazione. Ed è proprio poter ragionare su questo apparente conflitto identitario che ci obbliga a metterci in discussione e capire che, in fondo, non c’è nulla di più prezioso di mantenere fede alla nostra natura, al nostro carattere, alle nostre peculiarità soprattutto all’interno del contesto lavorativo.
M – Il figlio del secolo (Sky)
Roba strana, ed è bello che arrivi in televisione roba così strana.
Intendiamoci, si punta su nomi di sicuro richiamo per la cultura italiana di questi anni: Antonio Scurati, Luca Marinelli; ma l’idea vincente è stata affidare la regia a Joe Wright, stranoto per la sua estetica molto riconoscibile & molto elegante.
La prima serie, infatti, è splendida dal punto di vista estetico, e discutibile da quello narrativo: sono otto puntate, divise molto nettamente tra il racconto della presa del potere da parte del fascismo, e quello che succede dopo. Tanto che il tono cambia completamente dalla prima alla seconda metà, e cambia anche il modo in cui è raccontato Mussolini: nella prima parte è una specie di caricatura, che però funziona benissimo, raccontando come si possa essere una macchietta, un cialtrone, e allo stesso tempo cambiare la storia, fare danni enormi. Dopo la marcia su Roma e la presa del potere, spariscono satira e grottesco, Mussolini diventa un uomo solo e disperato, depresso. Ma non si capisce perché.
Il fatto che la seconda parte sia meno riuscita non vuol dire che la serie sia da buttare: la qualità è altissima, perfino nelle scelte più inaspettate – c’era bisogno di prendere Tom Rowlands dei Chemical Brothers per una serie sull’avvento del fascismo? Sembra strano, funziona molto bene.
Win or Lose (Disney+)
La prima volta che la Pixar si cimenta in una serie che non deriva da uno dei suoi film, fa quel che si può fare solo in una serie: in otto puntate, racconta la stessa storia da altrettanti punti di vista differenti.
O meglio, non proprio la stessa storia. Ma rimane uguale la cornice narrativa: una squadra di ragazzini vince (non ci credeva nessuno) una partita importante e si qualifica per le finali del campionato statale. Tanti personaggi si muovono intorno a quella partita: c’è la ragazzina scarsa a softball che però è figlia dell’allenatore, quella fortissima che però è figlia di una madre single, c’è l’arbitro che però è anche maestro ha molti problemi sentimentali.
È un modo di raccontare una storia che funziona molto bene sullo schermo, anche senza voler essere il nuovo Rashomon o il nuovo Decalogo. Infatti, Win or Lose non è né Kurosawa né Kieslowski, ma proprio Pixar in purezza.
Per la poesia, certo, ma anche perché la serie può parlare a generazioni diverse: Win or Lose racconta storie che hanno a che fare con i sentimenti dei bambini, dei preadolescenti, degli adulti. Che poi, a dirla tutta, gli adulti non sembrano proprio cresciutissimi, molto spesso. Ma quello credo sia soltanto realismo.
Pluribus (Apple TV+)
The hype is real per Pluribus, la nuova serie di Vince Gilligan: già al primo episodio si capisce che si pesca nella grande tradizione della fantascienza americana, quella che in televisione portava storie fatte soprattutto di grandi idee, che raccontavano possibili sviluppi del nostro futuro per dire qualcosa sul presente. Qui l’idea in questione è che un virus, o qualcosa del genere, alieno, provochi l’unione delle coscienze di ogni umano sul pianeta terra. Quindi tutti diventano una cosa sola, mentalmente. Il che significa, pace e armonia. E anche la fine di ogni libero arbitrio del singolo.
Pochissimi umani sono rimasti immuni a questo cambiamento, e tra loro c’è una scrittrice. Ma non una grande scrittrice: una scrittrice di romanzetti tra il fantasy e il rosa, romantasy si dice adesso, che vendono tanto, ma che fanno schifo a lei stessa. Del resto, odia anche i suoi lettori, e il mondo in generale: che sia l’unica immune da questa armonia generale è ironico, e perfetto.
Ma quello che rende perfetta questa prima stagione di Pluribus è il ritmo: lento, eppure sempre affascinante. Non c’è la fretta di fare succedere sempre qualcosa di scioccante, di tenere desta l’attenzione di chi guarda. Perché basta la protagonista, la situazione in cui si trova, e tutte le implicazioni delle sue scelte presenti e future. Pluribus è un caso quasi unico. Per fortuna esistono ancora serie del genere.




