Cinema

Cosa rimane del 2025: 5 film

Da Hollywood, al Veneto, agli ospedali svizzeri: pare che quello appena passato sia stato davvero un anno di grande cinema. Ecco cinque film da portare nel 2026, e oltre

  • 2 ore fa
Una battaglia dopo l'altra.jpg
  • Warner Bros.
Di: Red. 

Le città di Pianura di Francesco Sossai

Colpo di fulmine. A volte capitano, anche quando guardi tra i 150 e i 200 film l’anno. Questo mi ha colpito allo scorso Festival di Cannes, sezione “Un certain regard”. Sossai ha scritto e girato (benissimo) Le città di pianura, un film alla Aki Kaurismäki, trasportando la Finlandia in Veneto, ma mantenendo il medesimo tasso alcolico. Forse anche di più.

È un road movie atipico, perché la zona di insistenza è la pianura veneta, con una fugace capatina a Venezia. Un viaggio senza meta precisa, ma con uno scopo: l’ultimo bicchiere, ogni giorno, per chiudere degnamente la giornata. Carlobianchi e Doriano, due cinquantenni squattrinati, passano così le loro serate, finché si imbattono in Giulio, studente di architettura, timido al punto da non riuscire a dichiararsi alla ragazza che gli piace, che diventa (lui astemio) il terzo protagonista di questa gita quotidiana, fatta di espedienti e di derive (come sbagliare l’aeroporto di arrivo dell’amico di ritorno dal Sudamerica), di cattivi consigli, postumi di sbornia e lezioni di vita. Perché, alla fine, ognuno dei tre se ne uscirà arricchito, conquistando un’idea o un pensiero che gli permetterà di cambiare prospettiva. O almeno di provarci.

Con un palese omaggio al Sorpasso di Dino Risi e a tanto cinema italiano, quello atipico e non scontato. Il tutto con le pianure del Veneto a fare da scenario naturale, un inevitabile scontro generazionale a fare da contrappunto narrativo e anche una piccola lezione di architettura che non guasta (quando si ritrovano al Memoriale Brion di Carlo Scarpa ad Altivole, provincia di Treviso).
(Alessandro Bertoglio)

Heldin – L’ultimo turno di Petra Volpe

Una carrellata sulle uniformi color azzurro, sono fresche di lavanderia e aspettano solo di essere indossate. Si apre con un’immagine realistica e poetica allo stesso tempo Heldin – L’ultimo turno di Petra Volpe. Il film porta il pubblico in un ospedale: seguiamo la notte, nel reparto oncologia, dell’infermiera Floria Lind. Floria è appassionata e conosce tutti i suoi pazienti, con alcuni di loro ha instaurato un rapporto profondo. Crede nel suo mestiere ed è meticolosa, l’aspetto più importante per lei è riuscire ad entrare in empatia con chi sta soffrendo. Alcuni pazienti sono molto fragili perché affrontano lo stadio finale della malattia, perché sono lasciati a loro stessi senza nessuno che li accompagni e perché sono stranieri e non parlano una parola di tedesco. Altri pazienti sono capricciosi e maleducati: c’è chi crede di avere diritto ad un trattamento migliore perché paga di più, c’è chi, anche se attaccato alla bombola di ossigeno, non smette di accendersi una sigaretta dopo l’altra andando in terrazza vestito con il solo pigiama.

Il turno di notte è estenuante e il personale è ridotto ai minimi termini, a questa situazione si aggiunge una stagista alle prime armi. Floria (interpretata dalla convincente Leonie Benesch) affronta tutto con energia e il suo sorriso che rassicura e aiuta a superare le crisi. Quando queste armi non bastano prende un respiro profondo e cerca una connessione con i pazienti. Struggente la scena nella quale la vediamo cantare per calmare una anziana spaesata e sola. Le ore scorrono, non lasciano tregua e i problemi del reparto aumentano, Floria cerca con tenacia di seguire la procedura e di occuparsi di tutti, ma poi gli avvenimenti subiscono un’accelerazione e lei si spezza.

Con questo lavoro Petra Volpe cambia completamente registro dopo Contro l’ordine divino. Se le avventure per il suffragio femminile erano state raccontate con un’impronta dichiaratamente inventiva, qui siamo in un cinema verità e la linea di demarcazione con il documentario è sottile. Sono rare le concessioni che Heldin – L’ultimo turno regala alla spettacolarizzazione perché il film vuole essere una storia manifesto di una condizione lavorativa pesante e non retribuita come dovrebbe essere. Una scelta che deve molto alla posizione politica della regista e in questo caso abbiamo un legame stretto con Contro l’ordine divino: a Petra Volpe preme raccontare l’universo femminile in tutte le sue sfaccettature e battaglie. Una scelta artistica consapevole e premiata dal grande successo di pubblico e critica, successo ottenuto anche con questo suo nuovo film. Dopo Contro l’ordine divino, campione di incassi in Svizzera nel 2017, poteva sembrare impossibile replicare l’impresa e invece, anche con il rigore di una storia drammatica, Petra Volpe ha portato il pubblico nelle sale e, complice la piattaforma di streaming Netflix che ha caricato il film e lo ha portato in tutto il mondo, Heldin – L’ultimo turno sta conoscendo un importante successo internazionale.
(Moira Bubola)

Una battaglia dopo l’altra di Paul Thomas Anderson

Che banalità, certo. Il film che tutti aspettavano, che tutti hanno elogiato (a parte gli attivisti della destra americana MAGA, ma vabbè), che tutti «ecco DiCaprio che va a prendersi un altro Oscar». Però, quanti sono gli autori che sono riconosciuti come tali, nella Hollywood dei nostri tempi? Quanti, quelli che riescono a dribblare gli ostacoli dei grandi studios, e a mettere insieme spettacoli che chiunque può godersi, che poggiano sulle spalle di un secolo di cinema, ma che sono evidentemente frutto di uno sguardo personale (qualcosa che ormai sembra poco più che un retaggio novecentesco, nell’epoca che ha decretato la morte dell’originalità)? Paul Thomas Anderson è uno dei pochissimi, e qui ha fatto le cose in grande.

Quanti, di quelli che hanno amato Una battaglia dopo l’altra, hanno letto Vineland? Poco importa, perché il film da una parte è tutt’altro, rispetto al libro; dall’altra, è incredibilmente fedele (penso ad esempio al modo in cui ha catturato la “vaghezza focalizzata” di Pynchon, come ha scritto qui Vanni Santoni). È un viaggio meraviglioso indipendentemente dal materiale di partenza, pieno di scene memorabili (ce n’è almeno una per personaggio) interpretate da un cast eccezionale, di momenti esilaranti e disturbanti – nel caso dell’inseguimento finale, in tutti i sensi: personalmente, ho provato una lieve motion sickness. È, cosa fondamentale nel 2025, stato perfino capace di aggiungere una nuova pagina al ricco catalogo dei meme a tema-DiCaprio.
Forse i produttori della Warner Bros. non avranno stappato lo champagne (nonostante l’incasso di 200 milioni, il film è arrivato intorno al punto di pareggio, e niente di più), ma Una battaglia dopo l’altra è la dimostrazione che Hollywood è ancora viva, e che può andare oltre sequel, prequel e remake.
(Michele R. Serra)

Köln 75 di Ido Fluk

Può una piccola storia diventare il fulcro di un biopic, uno di quelli che tanto piacciono a produttori e pubblico? Un film benissimo scritto, ben girato e divertente? Se il film racconta la messa in scena, decisamente tribolata, di uno dei più leggendari concerti jazz della storia, non ci sono dubbi!

Il concerto è quello di Keith Jarrett a Colonia nel 1975, la protagonista Vera Brandes (interpretata dalla bravissima Mala Emde). Il film Köln ‘75 presentato alla Berlinale Special Gala lo scorso febbraio, ne racconta la genesi, strappando più di un sorriso. L’occasione della realizzazione del film sono stati proprio i 50 anni di quella che è assolutamente una avventura incredibile, per chi l’ha vissuta e chi ha potuto avere la fortuna di sedere in platea…

L’appena diciottenne Vera decide, dopo una felice esperienza di un paio di anni prima in un piccolo locale con uno show del semisconosciuto (allora) Ronnie Scott, di organizzare un grande concerto jazz: sceglie il migliore artista in circolazione, Keith Jarrett e una sala straordinaria, il Teatro dell’Opera. Tutto sembra andare nella maniera peggiore: la famiglia contro, pochi soldi a disposizione, i dirigenti del teatro che non approvano l’idea, il pianoforte scordato... Senza dimenticare un Keith Jarrett che dopo una tournée devastante, con il fisico minato dai tanti show e il poco riposo, arriva a Colonia in auto... La storia di quello che diventerà The Köln Concert, un album memorabile. Anche per chi parlando di jazz storce un po’ il naso.
(Alessandro Bertoglio)

Flow di Gints Zilbalodis

Siccome vorrei un cartone animato, e non vorrei che fosse un cartone animato Disney, mi permetto di tirare per i capelli nel 2025 questa meraviglia (uscita in effetti nella Svizzera italiana il 27 dicembre 2024, ma tutti quanti l’abbiamo vista nei primi giorni di gennaio).
Miagolii, musica: Flow non ha parole. È la storia di un gatto che ha due paure: la prima è l’acqua, la seconda gli altri. La prima paura diventa molto concreta subito, perché arriva un diluvio che sommerge il mondo: lì inizia l’avventura, che è fatta anche di incontri con altri animali, che però si comportano – anche loro – sempre da animali. Niente tartarughe parlanti che mangiano la pizza, o roba del genere.

Gli animali sono e sembrano animali, il che non significa che non abbiano sentimenti, emozioni, passioni. Emozionano un sacco anche noi, che spesso ci emozioniamo davanti ai cartoni animati anche se siamo più che adulti. Però Flow emoziona in un modo molto diverso, ad esempio, dai film della Pixar, che le lacrime a volte te le spremono fuori dagli occhi (davvero la signora Fredicksen muore proprio quando il signor Fredicksen, dopo una vita di sacrifici, era riuscito a risparmiare abbastanza per portarla a vedere le Cascate Paradiso? Pixar, io detesto i tuoi colpi bassi). Flow riesce a essere commovente senza forzare lo spettatore, e questo segna un’ulteriore differenza in un film che, a dirla tutta, è differente in generale.

Flow è differente perché è costruito con una tecnica diversa. È fatto come si fanno i videogame: il creatore e regista Gints Zilbalodis non ha disegnato uno storyboard, ma ha generato una specie di enorme ambiente tridimensionale all’interno del quale si muovono i personaggi, anche loro modelli tridimensionali, e poi ha selezionato le inquadrature. È animazione, ma fatta, in qualche modo, come un film dal vero. O, appunto, come un videogioco: non credo sia un caso se a tratti ricorda videogame tipo Ico o Myst, che di sicuro ricorda bene anche Gints Zilbalodis, che ha poco più di trent’anni.
È rarissimo vedere un film che ti fa pensare: «Wow, questo è veramente qualcosa di nuovo». Che Flow sia arrivato all’Oscar significa che, per carità, l’Academy avrà i suoi difetti, ma a volte ha ancora gli occhi per vedere (i film).
(Michele R. Serra)

24:13
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  • Ti-Press
  • Moira Bubola e Alessandro Bertoglio

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