Cinema

Dio non risponde

"Silence", un film di Scorsese

  • 16 maggio 2021, 00:00
  • 31 agosto 2023, 10:57
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Di: Valerio Abate

Il film Silence di Martin Scorsese, tratto dall’omonimo romanzo di Endō Shūsaku, racconta la storia di due gesuiti portoghesi del XVII secolo partiti alla ricerca del loro mentore nell’estremo oriente, là dove sono in corso le più violente persecuzioni contro i cristiani. La terra nera del Giappone è intrisa di paura e sofferenza.

Le immagini, fin dall’inizio, sono solenni, nelle scene terribili come in quelle miserabili, e non solo per le luci e le composizioni, ma soprattutto per il ritmo. Nel susseguirsi delle azioni e dei dialoghi vengono a contatto due mondi lontani, distinti, inconciliabili. Il tema ci tocca in un’intimità che non conosce confini spaziali o temporali. Non perché lo viviamo giornalmente, ma perché ci riscopriamo – seppur nella distanza – tanto vicini presso il dolore e il senso, la fede e il dubbio.

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In apparenza secondario, ma innegabilmente essenziale, è il ruolo delle concrete immagini cristiane. Il fascino esercitato dai simboli – una semplice croce di legno, l’immagine di un santo o della Madonna – è così intenso da saldare un animo vacillante: per i contadini giapponesi guardare o persino toccare uno di questi idoli è come toccare Dio stesso. E proprio per la sacralità di queste figure l’inquisitore porrà ad esame i sospetti cristiani facendo loro calpestare, sputare o bestemmiare contro un’immagine santa. L’abiura, perno centrale del film, si fonda su questo tanto semplice quanto difficile gesto. Calpestare o non calpestare... per salvare non solo la propria vita, ma anche quella degli altri, salvarla sacrificando la fede, la propria dignità, la salvezza della propria anima. «È solo una formalità», ripetono i samurai. Eppure molti preferiscono essere arsi vivi o essere legati a dei pali in riva al mare in attesa che le onde, a ogni abbraccio violento, portino via la loro vita. Durante le persecuzioni ogni sofferenza diventa una prova divina, superata la quale la fede trionfa, anche nella morte, anzi soprattutto nella morte: è nel sacrificio della propria vita che si compie, per imitatio Christi, la maggiore vicinanza a Dio.

Poi c’è chi abiura, più e più volte. È il caso speciale di Kichijiro: una persona dallo spirito debole, ma dalla fede persistente. In certa misura ricorda Giuda (soprattutto nella scena in cui consegna padre Rodrigues all’inquisizione e gli vengono gettate le monete del compenso), tuttavia è un personaggio unico e necessario. Kichijiro è lì per muovere pietà, è la figura che insegna – al di là di ogni predica e dottrina – la compassione cristiana per il miserabile e il corrotto.

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Quando in noi si è ormai consolidata un’immedesimazione nella fede dei gesuiti e dei contadini, Scorsese ribalta la prospettiva instillandoci il dubbio sul senso delle loro morti. L’incontro di padre Rodrigues con l’interprete giapponese è l’inizio di numerosi confronti e scontri tra i due mondi. Qui l’arroganza monoteista si fa sentire di fronte al relativismo mostrato dall’interprete, il quale fa notare non solo che il Giappone già possiede quella che noi chiamiamo religione e una cultura sua propria, ma che i gesuiti sono arrivati solo per insegnare e mai per imparare, dimostrando profonda ignoranza rispetto al pensiero e alla pratica buddisti: «il budda è qualcosa che ognuno può diventare – dice l’interprete – se sa sconfiggere le sue illusioni. Ma voi vi aggrappate alle illusioni, e le chiamate fede».

Nel confronto con l’aristocrazia nipponica la dottrina cristiana risulta senza utilità né valore in Giappone, risulta anzi pericolosa per l’ordine culturale, ossia per l’ordine politico a cui tenevano i signori feudali. Il gesuita crede in una verità assoluta da portare come luce là dove vi è ignoranza di Cristo – per non parlare della volontà colonizzatrice. Tuttavia in quella terra nera l’albero del cristianesimo non mette radici, non tanto perché vengono recise dall’inquisizione ma, come spiega il mentore ritrovato (padre Ferreira) a Rodrigues, perché i giapponesi credono a una distorsione del Vangelo. Estranei alla metafisica occidentale non concepiscono la divinità dietro al cielo, al sole o al fiume, ma come cielo, sole e fiume. Pregano in nome di Deus, ma «è solo un’altra parola per un dio mai conosciuto». Centinaia di persone torturate a morte per un dio che non era quello predicato dai gesuiti. Allora tutte quelle persone per cosa hanno sofferto, per cosa sono morte? Il cristianesimo portava loro la speranza che tutte le sofferenze vissute non sarebbero finite nel nulla, ma nella salvezza. La fede dei contadini è chiaramente una veste della disperazione, perpetrata dalla povertà e dalla fatica, non fede quindi ma speranza, salda e fortissima speranza di una vita migliore, anche se nell’oltretomba.

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In una delicata tensione tra fede e critica storica, il film di Scorsese appare come una stampa lenticolare a doppio riflesso: ora viviamo la fede profonda dei padri gesuiti e dei cristiani giapponesi di fronte alla barbarie delle persecuzioni, ora, inclinando lo sguardo, l’insensatezza delle loro azioni e la prepotenza missionaria nei confronti della cultura nipponica. Scorsese è stato capace non solo di mostrare il relativismo culturale moderno, ma anche di catapultarci in un mondo dimenticato dalla realtà secolare, dove quel che a noi sembra insensato là è l’unico senso, il mondo della fede.

Le domande, le continue perplessità di Rodrigues accompagnano tutto il film, sono quei dubbi atroci ai quali Dio non concede soluzione. Ogni domanda si perde nello scroscio della pioggia, nel sibilo del vento o nel frinire delle cicale; e, con ogni parola dispersa, il dubbio e la disperazione crescono. Il niente albeggia nel silenzio imposto dai muti suoni della natura evocati da Scorsese. Dovranno passare decenni, l’abiura e l’accettazione di una vita giapponese, prima che quello che un tempo fu padre Rodrigues comprenda qualcosa di radicale: «è stato nel silenzio che ho sentito la Tua voce».

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