Cinema

Il padrino

L'incredibile storia di un capolavoro

  • 13 marzo 2023, 08:34
  • 14 settembre 2023, 09:00
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Di: Fabrizio Coli

Nel 2007 l’American Film Institute lo ha dichiarato il secondo miglior film statunitense di tutti i tempi dopo Quarto Potere di Orson Welles. Già nel 1998 era entrato in quella classifica, inizialmente al terzo posto. Ma era da molto più tempo che Il Padrino di Francis Ford Coppola non cercava riconoscimenti o rassicurazioni circa il suo status. In realtà non ne aveva mai avuto bisogno, fin dalla sua uscita nel marzo del 1972. Il pubblico di tutto il mondo si era subito messo in fila per vedere il film. Gli incassi, oltre le più rosee aspettative, avevano ridato vita alla Paramount. La critica lo aveva applaudito. Aveva lanciato nel firmamento del cinema il suo regista, riportato in auge la stella in declino di Marlon Brando e trasformato in una star l’allora sconosciuto Al Pacino. Era entrato di diritto non solo nella storia del cinema ma anche nella cultura di massa.

Quando oggi pensiamo a Il Padrino ci viene immediato credere che l’ineluttabilità del suo successo e l’impatto che ha avuto fossero già scritti nel marmo, che non potesse che andare così, che ogni minimo dettaglio che ha portato alla sua riuscita fosse pianificato e curato fin dall’inizio, che tutti coloro che sono stati coinvolti nel progetto non potessero che essere destinati alla grandezza. La cosa più incredibile è che invece è vero proprio il contrario. Date le premesse, è un autentico miracolo che dalla travagliata genesi di questo film sia uscito quello che in effetti ne è uscito: un capolavoro senza tempo.

C’è una frase particolarmente significativa di Walter Murch, montatore e poi tecnico del suono di Coppola. “In un certo senso – racconta nel documentario Godfather: The Masterpiece that Almost wasn’t – ogni film è una serie di eventi altamente improbabili che sembrano logici solo dopo, quando li vedi insieme”. Sono parole che possono riguardare le storie narrate, ma sono assolutamente vere – di sicuro nel caso de Il Padrino – anche se riferite alla realizzazione di un film.

Navigando in acque sconosciute

Quando la trasposizione cinematografica del Padrino inizia realmente a delinearsi, all’inizio degli anni Settanta, c’era solo una cosa e una soltanto che sulla carta poteva funzionare: il romanzo da cui sarebbe stato tratto era infatti un best seller da circa 10 milioni di copie vendute. Tutto il resto pare impensabile sia successo davvero. È come se si fosse messo all’opera un imprevedibile gioco di forze misteriose, forze che fecero sì che tutto le scelte iniziali riguardanti il film – dal cast alla regia – non si concretizzassero e che le decisioni forzate, prese per mancanza di alternative finissero invece magicamente per essere quelle giuste, in un momento in cui il mondo del cinema stava navigando in acque sconosciute e verso l’ignoto.

Alla fine degli anni Sessanta Hollywood era in crisi, tutto quanto stava cambiando. Cambiavano i gusti del pubblico, cambiavano le strutture produttive. Gli studi passavano di mano, venivano venduti a grosse corporation mentre le figure che li avevano resi grandi uscivano di scena. Dall’altra parte c’erano poi i sogni dei giovani registi, i primi – proprio come Francis Ford Coppola – a uscire dalle scuole di cinema: una generazione che guardava all’Europa e che cercava di affermare la propria indipendenza, in bilico tra voglia di arte e necessità di successo. Ma se i film fatti alla vecchia maniera iniziavano a fallire, anche i giovani non se la passavano benissimo. Coppola e la sua cricca – di cui faceva parte gente come George Lucas ed altri protagonisti di quella che sarà chiamata la Nuova Hollywood – avevano fondato nel 1969 a San Francisco il loro studio, l’American Zoetrope, con l’idea di servire da base per filmmakers debuttanti o poco più che volevano lavorare fuori da Hollywood.

Probabilmente non si trattava di una contrapposizione così netta tra vecchio e nuovo e forse è più corretto pensare piuttosto a uno spostamento di equilibri, a una esplorazione avventurosa di nuove possibilità. Per dire, la stessa Warner Bros. – quanto di più hollywoodiano potesse esserci – inizialmente coprì le spalle alla neonata American Zoetrope, fornendo materiale e siglando un accordo per distribuire i film, ma se ne distanziò dopo il fallimento commerciale dei primi progetti.

Due figure chiave, inizialmente restie

Coppola è poco più che trentenne quando viene chiamato dalla Paramount per dirigere il film tratto dal romanzo Il Padrino di Mario Puzo. Ha frequentato l’UCLA, ha lavorato per Roger Corman. È reduce dal flop commerciale del suo The Rain People (Non torno a casa stasera, 1969). Per la Paramount è un regista in affitto, contattato solo dopo che diversi altri – da Kazan a Costa Gavras – hanno detto di no e scelto soprattutto per le sue origini italo americane (che avrebbero dovuto metterlo in sintonia col progetto), la sua età (che sulla carta avrebbe dovuto renderlo più malleabile) e infine per la sua fama di abile scrittore (che sarà confermata dall’Oscar vinto durante la lavorazione de Il Padrino per la sceneggiatura di Patton, generale d’acciaio). Neppure Coppola però è convinto. Anche se all’inizio il film era pensato come una produzione più piccola di quella che effettivamente diventerà, era pur sempre imbrigliato in logiche più hollywoodiane rispetto a quanto aveva in mente il regista di Detroit. Ma Coppola per i suoi progetti aveva bisogno di denaro. George Lucas racconterà di avergli detto: “Considera Il Padrino come una scialuppa di salvataggio. Fallo, prendi i soldi e poi facciamo quello che vogliamo fare veramente”.

Anche Mario Puzo, riguardo al libro, aveva avuto un percorso simile. Autore di un paio di romanzi ben recensiti dalla critica (soprattutto il secondo, The Fortunate Pilgrim) e accolti piuttosto bene anche dal pubblico, era però sempre con l’acqua alla gola per debiti di gioco. Anche per lui si trattava prima di tutto di una questione di soldi. Si mette a scrivere Il Padrino su consiglio dei suoi editori e la Paramount comincia a metterci gli occhi sopra quando il romanzo è ancora ben lontano dalla pubblicazione, sulla scorta della prima sessantina di pagine. In seguito, il fallimento di un film con tematiche simili, La fratellanza con Kirk Douglas (che non vede però coinvolto nessun italo americano) rischia di far cadere tutto: il progetto torna sul piatto solo dopo che il libro, nel frattempo uscito, è diventato un super best-seller.

La lavorazione: fra mille difficoltà

Oltre al regista, allo scrittore e agli attori che il film renderà celebri, ci sono anche tanti altri protagonisti i cui nomi sono meno noti al grande pubblico ma il cui ruolo è stato fondamentale nella nascita di questo pezzo di storia del cinema, a cominciare dal produttore de Il Padrino Al Ruddy, dall’allora capo della produzione della Paramount Robert Evans e da Charlie Bluhdorn, il big boss della Gulf + Western, il gruppo che nel 1966 si era comprato lo studio. I rapporti tra loro e Coppola non saranno semplici. Il regista rischia di farsi licenziare una settimana sì e l’altra pure durante tutta la lavorazione. Prima di tutto c’è la questione del cast. Coppola, su consiglio di Puzo, vuole Marlon Brando nel ruolo di Don Vito Corleone. Dalla produzione arriva un secco no: “Brando non lavorerà mai in un film della Paramount!” e questo per via della sua fama di piantagrane e perché in quel momento il suo nome non sta tirando particolarmente al botteghino. In più è anche troppo giovane per la parte. Perché la stella di Fronte del porto salga a bordo ci vorranno delle clausole ad hoc nel contratto che evitino alla produzione di coprire i costi di sue eventuali mattate, ci vorrà il famoso provino in cui Brando, per avere la celebre “faccia da Bulldog” del Don, si riempie le guance di cotone e naturalmente, ci vorrà tutta l’insistenza di Coppola che si rivela un osso ben più duro con cui confrontarsi rispetto a quanto preventivato. Stessa cosa per il ruolo di Michael Corleone, figlio di Don Vito. Coppola vuole Al Pacino, un attore semi sconosciuto all’epoca che fino lì poteva vantare un successo teatrale a New York e poco più. La produzione non ne vuol sapere. Evans e Ruddy hanno in mente qualcuno di completamente diverso, un Robert Redford per dire, un Alain Delon. Pacino per loro è troppo italiano e pure troppo basso. I suoi primi provini poi sono un disastro. Ma anche qui Coppola si impunta: “sono io il regista e se non prendete lui me ne vado anche io”, minaccia. La rischia davvero grossissima. A salvarlo è prima di tutto il fatto che un cambio di regia avrebbe comportato troppi ritardi e poi una scena con Pacino, quella in cui Michael uccide Sollozzo, il gangster che ha ordinato l’attentato a suo padre, scena che finalmente convince tutti quanti che quel giovane attore ha le carte in regola.

Come se non bastasse, oltre alle discussioni sul cast, c’è il fatto che Coppola rifiuta sia l’adattamento contemporaneo che la Paramount ha in mente (con una vicenda che si sarebbe dovuta svolgere negli anni Settanta e non come è invece nel film, nella seconda metà degli anni Quaranta), sia le location inizialmente previste a Saint Louis per contenere il budget. Anche qui, dopo un estenuante braccio di ferro, Coppola ottiene ciò che vuole: un film d’epoca ambientato e girato a New York, Las Vegas, Los Angeles e persino in Sicilia.

La mafia italo-americana, quella vera e quella del film

Gli aneddoti legati alla realizzazione de Il Padrino si sprecano a cominciare da quello che vede Frank Sinatra cercare in ogni modo di far stralciare dal film il personaggio del cantante Johnny Fontaine, ispirato a lui. Una parte corposa riguarda poi i rapporti con la vera mafia italo-americana. Al centro c’è la figura di Joseph Colombo, capo di una delle cinque famiglie di New York. Colombo, che pubblicamente si comporta più come un politico che come un potente boss (quale è) è il fondatore della Lega per i diritti civili degli italo-americani, che minaccia feroci boicottaggi durante la lavorazione del film, in quanto questo lederebbe – paradossale e sfacciatamente ipocrita visto da chi viene l’accusa – proprio l’immagine degli italo-americani. Finirà con un accordo tra il produttore Al Ruddy e Colombo: nel Padrino non verranno esplicitamente usati né il termine mafia né cosa nostra. Quest’accordo – che prevede anche che il ricavato della prima del film sia donato in beneficienza alla Lega italo americana – finisce in prima pagina sul New York Times, che titola a tre colonne in taglio basso “Il film Il Padrino non menzionerà la mafia” mandando su tutte le furie Bluhdorn che è a un passo dal licenziare Ruddy. A quel punto però la lavorazione del film diventa molto più facile. Le porte di location prima inaccessibili si aprono magicamente e dei paventati picchetti non c’è più l’ombra. A raccontare tutte queste cose e molte altre, in un articolo pubblicato il 15 agosto del 1971 sul NY Times è Nicholas Pileggi, che su soggetti simili tornerà spesso, ad esempio come sceneggiatore di Quei bravi ragazzi e Casinò di Martin Scorsese. Per i mafiosi, scrive Pileggi, le riprese del Padrino furono come quelle di un film casalingo. Si vedevano umanizzati, piuttosto che condannati e avevano apprezzato anche il romanzo, cosa ancora più sorprendente dal momento che Puzo ha sempre dichiarato che tutto il libro è stato completamente frutto di ricerche. “Conoscevo sì il gioco d’azzardo – scrive in The Godfather Papers and Other Confessions l’autore del romanzo e sceneggiatore del film insieme a Coppola – ma tutto qui. Non avevo mai incontrato nessun vero gangster. Conobbi in seguito la gente legata a questi ambienti e loro si rifiutavano di credere che io non fossi mai stato legato al racket”.

I mafiosi cominciano anche a fare in qualche modo da modelli per gli attori. James Caan ad esempio, che nel film interpreta l’impulsivo Sonny Corleone, ne studia affascinato le mosse e i modi di parlare.

Il Padrino ha guardato con dettagli senza precedenti alla vita della mafia italo-americana. Ma in un cortocircuito, lo stesso film ha influenzato i modi di fare dei mafiosi a venire. Poche settimane fa un articolo sempre del New York Times dall’eloquente titolo che tradotto suona “Con il Padrino l’arte ha imitato la vita della mafia. E viceversa”, raccontava di come intercettazioni dell’FBI e insider suggeriscano che molti veri affiliati abbiano tratto dal film ispirazione su come parlare, agire e vestirsi. Un intreccio che già da tempo è percepibile in tutte le fiction successive al film di Coppola che hanno affrontato lo stesso soggetto. Tanto per citarne una: la serie I Soprano, che cita Il Padrino più volte ed esplicitamente.

Quella di rendere la mafia affascinante è stata da sempre una critica a cui Il Padrino ha prestato il fianco, nonché il motivo per cui diversi registi prima di Coppola hanno rifiutato il lavoro. Coppola però, ha visto nel film una metafora del capitalismo americano. “Ho sempre voluto usare la mafia come metafora dell’America – ha detto a Stephen Farber di Sight and Sound nell’autunno del 1972 – se guardi il film vedrai che è focalizzato su questo. La prima battuta è ‘Io credo nell’America’. Penso che la mafia sia un’incredibile metafora di questo Paese. Sia la mafia che l’America hanno radici in Europa. L’America è un fenomeno europeo. Di base, sia la mafia che l’America si ritengono organizzazioni benevole. Sia la mafia che l’America hanno le mani macchiate di sangue per via di quello che è necessario che facciano per proteggere il loro potere e i loro interessi. Entrambe sono un fenomeno totalmente capitalistico e hanno il profitto come motivo”. Ma c’è dell’altro ad affascinare il regista.

E dal caos emerge un capolavoro

“È la storia di una successione, quella di un re che ha tre figli maschi”. Per sua esplicita ammissione, è stata questa dimensione a colpire la fantasia di Coppola. Don Vito Corleone, vecchio e potente boss in mezzo a una guerra fra vecchio e nuovo potere. I suoi tre figli: Fredo, il primogenito, il più fragile; Sonny, la testa calda che fino a qui sembra destinato a prendere le redini della famiglia. Michael, il prediletto, quello che è andato a servire il suo paese in guerra, che ha studiato e che sembra avviato a grandi imprese ma che alla fine seguirà la strada del padre. Alla base di tutto ecco dunque una vicenda e dei personaggi dallo spessore shakespeariano. Una storia di sangue e violenza, senza dubbio, ma che rende vividi i fortissimi legami familiari di un mondo mai trattato prima con un tale livello di dettaglio e profondità. Un mondo fatto di codici e rituali, un mondo in cui si sente l’onnipresente odore di cibo, che è scandito da cerimonie religiose che qui assumono una dimensione distorta, che parla un linguaggio proprio. “Moralmente ed eticamente Il Padrino mostra un mondo corrotto da cima a fondo”, ha detto il regista Guillermo Del Toro, sottolineando che però “i termini sono umani, non morali” e che “le emozioni dei gangster sono come le nostre”.

La saga del Padrino avrà in seguito altre due parti: la seconda (Il Padrino: parte II, 1974) con un eccezionale Robert De Niro nel ruolo di Don Vito Corleone da giovane, che può essere considerata un tutt’uno con il primo film, e una terza e conclusiva (Il Padrino: parte III, 1990), possente ma meno efficace delle prime due. Ma già il primo film, da solo, ha tutto il peso, la consistenza, e la densità necessarie a farne un capolavoro capace di resistere al tempo, qualità salvaguardate anche da una lunghezza non indifferente (quasi tre ore) per la quale – caso più unico che raro – sono stati i produttori a imporsi nei confronti del regista incline a tagli, contrariamente al modo di agire classico che li vede sempre pronti a ridurre la durata di un film.

Naturalmente, a rendere il film memorabile non è solo la storia. Scene come quadri, con pochi ma essenziali movimenti di camera. La musica di Nino Rota, così nostalgica e senza la quale pare impossibile pensare al Padrino (eppure, anche qui, ci mancò un soffio che Robert Evans, a cui non piaceva, la stralciasse). Il contrasto fra luce e ombra che enfatizza nella fotografia di Gordon Willis il bene e il male fin dall’inizio, con la solarità della festa di matrimonio e il buio che avvolge Don Vito Corleone nella stanza in cui riceve le udienze. La performance strepitosa di tutto il cast dove, oltre ai nomi già citati, ci sono uno splendido John Cazale nella parte di Fredo, Talia Shire, sorella di Coppola, in quella di Connie, figlia di Don Vito, un perfetto Robert Duvall in quella del “consigliori” Tom Hagen, Diane Keaton nel ruolo della fidanzata di Michael, più una schiera di indimenticabili caratteristi. E naturalmente c’è quella sfilza di battute indimenticabili e di scene memorabili entrate dritte dritte nella cultura popolare, da “gli farò un offerta che non potrà rifiutare” a “tieni gli amici vicino ma i nemici ancora di più”; da “lascia la pistola, prendi i cannoli” a espressioni come “andare ai materassi”, alla famigerata testa di cavallo mozzata nel letto, a Sonny Corleone crivellato di colpi.

Incassi senza precedenti. Dieci nomination e tre oscar vinti (come miglior film al produttore Al Ruddy, migliore sceneggiatura non originale a Coppola e Puzo, miglior attore protagonista a Marlon Brando, che in segno di protesta contro il trattamento riservato nel tempo ai nativi americani non si presentò alla cerimonia): ha perfettamente ragione il critico del Los Angeles Times Kenneth Turan quando dice “Questo è un film che migliora ogni volta che lo vedi. La prima volta che lo vidi pensavo già che fosse eccezionale, ma ogni volta che lo riguardo mi piace sempre di più”.

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