Tra i direttori della fotografia più apprezzati di sempre, pioniere del cinema digitale nonché attento sperimentatore di nuovi linguaggi, Dante Spinotti ha raccontato la sua vita in un libro edito da La Nave di Teseo e intitolato Il sogno del cinema – La mia vita, un film alla volta (2023). È partendo da questo lavoro che nasce un dialogo sulla sua grande carriera, grazie alla quale ha consegnato alla storia film di culto quali Heat, L’ultimo dei Mohicani e La leggenda del santo bevitore.
Il sogno del cinema racconta la tua vita attraverso i set che hai calpestato. Com’è stato rivivere tutto in un libro?
Mi ha aiutato l’idea di questo ragazzino in copertina. Ha fatto sì che parlassi di una persona esterna a me. Un ragazzino che a diciassette anni sognava di fare cinema. Vedersi da fuori è stato come riconsiderare tutto e dare una ragione al tutto. Oggi mi sembra naturale quello che è successo, ma rivedendomi nel racconto, partendo proprio dal ragazzino che ero, è come trovare un senso al mio percorso.
Partendo proprio da quel giovane, possiamo dire che dobbiamo la tua carriera alla sua scarsa attitudine agli studi?
Sì, assolutamente. A quei tempi le famiglie borghesi come la mia tendevano a indirizzare i figli al liceo. Toccò anche a me. Alle medie me la cavai perché andavo benissimo in disegno, ma il latino si rivelò un mondo alieno. Quando mi bocciarono, i miei famigliari mi spedirono in Africa da uno zio che realizzava documentari. Fu lui a mettermi in mano la prima cinepresa. Fortunatamente sono stato indirizzato a un lavoro che combaciava con le mie passioni. Le immagini sono state fondamentali nella mia vita, fin dall’infanzia, quando ancora bambino sviluppavo le mie prime fotografie sotto il letto o nella camera oscura del fotografo del paese. Ero anche appassionato di meccanica e ai tempi le cineprese erano mezzi meccanici veri e propri. Mi divertivo a montarle e smontarle. La cinepresa che si vede in copertina l’ho smontata e rimontata più volte.
Tornato dall’Africa iniziarono anche le tue prime collaborazioni con la RAI. Come hai vissuto quegli anni?
Lavorare in RAI negli anni Settanta era un sogno per molti, soprattutto per gli ottimi stipendi. Fu un periodo importante per la mia crescita artistica perché essendo un ente pubblico non poteva licenziarti se non per gravi reati. Questo rendeva la RAI un banco di sperimentazioni illimitato. Usai tutte le soluzioni possibili, sperimentai ogni mezzo. Ricordo che con Alberto Sironi realizzai dei film tratti dai libri di Scerbanenco e lì ci sbizzarrimmo a sperimentare tecnologie e linguaggi. Usavo la pellicola invertibile spingendola tantissimo nelle esposizioni, e capitava anche di fare grossi errori, ma nessuno poteva licenziarti. La RAI fu fondamentale per la mia creatività e il mio desiderio di sperimentare, ma alla lunga si trasformò in una prigione. Io volevo fare cinema.
E ci saresti riuscito, perché dopo alcuni film in Italia sei approdato in USA grazie a Dino De Laurentiis. Con lui hai subito realizzato i due film che ti avrebbero aperto le porte di Hollywood.
L’incontro con De Laurentiis fu per me fondamentale. La prima cosa che fece fu mettermi in contatto con Michael Mann, che all’epoca stava producendo Manhunter (1986). Fu un film traumatico perché trovarsi all’improvviso con una troupe così scombinata, con gente che avevo portato dall’Italia e che nemmeno parlava inglese, rese tutto molto complesso. Mi accorsi subito che Mann aveva una marcia in più rispetto a coloro con cui avevo lavorato fino ad allora. La prima volta che lo incontrai sul set mi consegnò la stampa di un dipinto di Magritte. Si trattava de L’impero della luce. Mi disse: “Questa è la fotografia del mio film”. Servì una buona capacità interpretativa. A proiettarmi sulla mappa di Hollywood ci pensò il film successivo. Crimini del cuore (1986) di Bruce Beresford aveva nel cast tre attrici molto importanti come Diane Keaton, Jessica Lange e Sissy Spacek. Quando uscì in sala, a Hollywood prese a girare la voce che riuscivo a ringiovanire le attrici. Allora iniziarono a chiamarmi i grandi produttori hollywoodiani.
Undici anni dopo sarebbe arrivata la tua prima candidatura all’Oscar con L.A. Confidential (1997). Di premi ne hai vinti molti, tra gli ultimi un Pardo alla carriera al Festival di Locarno. Che cosa hanno significato per te questi riconoscimenti?
I premi sono una parte importante. Le due candidature all’Oscar furono entusiasmanti, soprattutto perché si tratta di premi che arrivano dai tuoi colleghi. Il Pardo d’oro è arrivato con grande sorpresa e un’enorme contentezza, anche perché ero già stato a Locarno un paio di volte. Ricordo che ci andai con Il Quartetto Basileus (1982). Fu proiettato in piazza su questo schermo splendido. Avevo girato in super 16 mm e ricordo la presenza dei grandi cineasti europei. Quando il diretto Giona Nazzaro mi chiamò fui molto felice. Fu un’emozione enorme leggere le bellissime parole che scrissero per me. La piazza era stracolma.
Il libro contiene una breve prefazione di Anthony Hopkins. Com’è nata la vostra amicizia?
L’amicizia con Hopkins nasce a seguito del film Red Dragon (2002) di Brett Ratner. Tony, nonostante non avessimo avuto grandi rapporti sul set, mi chiamò per dirigere la fotografia del suo film: Slipstream (2007). Forse gli era piaciuto il mio carattere perché mi chiamò anche quando produsse il film di sua moglie Stella. Slipstream fu il mio primo film in digitale. Anthony fu subito d’accorto di girare in digitale, ma ai tempi non accadeva spesso.
Erano anni in cui ancora nessuno ci credeva. La storia ti ha dato ragione…
Spielberg ai tempi diceva che non avrebbe mai girato film in digitale, evidentemente cambiò idea. Oggi chi gira in pellicola lo fa per puro romanticismo. Al di là che non esistono più cinema che proiettano film in pellicola, ogni film anche quando girato in pellicola viene digitalizzato. Il futuro era già scritto, bastava saperlo leggere.
Dante Spinotti
RSI Cultura 12.08.2021, 17:05
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