C’è un’idea ricorrente quando si parla di musica per cinema: che sia un rinforzo emotivo, un commento, un ornamento. Psycho dimostra invece l’esatto contrario. Nel film di Alfred Hitchcock, la colonna sonora di Bernard Herrmann diventa un vero e proprio strato narrativo, capace non solo di amplificare l’immagine, ma di guidarne il senso, anticiparne gli snodi drammatici e definire la psicologia dei personaggi. In vista della proiezione con orchestra dal vivo al LAC - che offrirà l’occasione di riscoprirla in tutta la sua forza - vale la pena interrogarsi su questo rapporto unico tra immagine e suono, tra regia e scrittura musicale.

Bernard Herrmann (1911-1975)
Herrmann concepisce una partitura che non si limita a sostenere la suspense, anzi, la genera. L’orchestrazione esclusivamente per archi, scelta audacissima, rispecchia il bianco e nero del film creando una tavolozza sonora priva di calore, fatta di contrasti netti, tensioni continue e densità claustrofobiche. In questa monocromia vive un linguaggio musicale vicino alle avanguardie del Novecento: dissonanze aspre, ostinati ritmici implacabili, armonie frantumate. Tutto concorre a definire un mondo narrativo in cui la musica non è più sfondo, ma struttura.
Hitchcock comprende la potenza di questa scrittura e le lascia spazio, riducendo i dialoghi e costruendo molte sequenze come se la musica fosse l’unica vera voce interiore dei personaggi. Il celebre motivo iniziale, con la sua frenesia tagliente, non introduce tanto una trama quanto un disequilibrio psicologico che contamina l’intero film. Nella fuga di Marion Crane, il ritmo ossessivo degli archi diventa la sua coscienza: la musica racconta ciò che l’immagine non mostra, ovvero l’ansia, il senso di colpa, la percezione di essere già braccata. Persino la scena della doccia - inizialmente pensata senza musica - trova nella celebre serie di “coltellate sonore” dei violini non un accompagnamento, ma un vero dispositivo narrativo: la brutalità dell’azione prende forma non tanto nella visione, quanto nel suono.
Riascoltare - o meglio, ascoltare davvero - questa partitura in una sala da concerto permette di coglierne la complessità. Dal vivo, gli attacchi degli archi, le tensioni armoniche, il passaggio repentino da un pianissimo tremante a un’esplosione stridula assumono una fisicità che difficilmente si colgono nella fruizione cinematografica tradizionale. Anche senza aver ancora assistito all’esecuzione, è facile immaginare come l’orchestra della Svizzera italiana, sotto la direzione di Anthony Gabriele, possa restituire al pubblico questa dimensione materica della musica, facendo emergere l’ossatura sonora che regge il film.
Portare Psycho in una stagione sinfonica significa riconoscere il valore autonomo della musica di Herrmann: non una “colonna sonora”, ma una vera opera orchestrale che dialoga con la tradizione classica e con le sue evoluzioni moderne. E significa misurare l’impronta lasciata su generazioni di compositori: da Williams a Elfman, da Shore ai minimalisti contemporanei, la lezione di Psycho continua a risuonare nei modi in cui oggi raccontiamo la tensione, il dubbio, l’inquietudine.
Forse è proprio questo il miracolo di Psycho: dimostrare che la musica non è un’aggiunta al cinema, ma uno dei suoi organi vitali. E che, quando immagine e suono si intrecciano con tale precisione, la narrazione trova una profondità nuova, quasi sotterranea. La proiezione con orchestra dal vivo promette di rendere visibile — anzi, udibile — ciò che il film da sempre nasconde sotto la sua superficie: il battito segreto della sua storia.

Psycho al Lac (Kappa, Rete Due)
RSI Cultura 10.12.2025, 17:00
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