Cinema

Supersex, tra spirito dionisiaco e fallocentrismo

La serie ispirata alla vita di Rocco Siffredi risulta un’esplosione di mascolinità tossica e insaziabile

  • 25 marzo, 11:48
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Alessandro Borghi in "Supersex"

  • Netflix
Di: Valentina Mira

Quello che convince di Supersex - la serie Netflix liberamente ispirata alla vita di Rocco Siffredi - è tutto ciò che non parla di sesso.
Materia massimamente complessa, forse avrebbe necessitato più riflessione sull’industria pornografica, sul genere o meglio sui generi, sul sesso stesso. Si è scelta la via facile, da questo punto di vista: Rocco descritto come un animale, la facile metafora del toro, con cui viene in più momenti tracciato un parallelismo.

Tutto ciò che è davvero interessante in Supersex, si diceva, non è il sesso.
È Alessandro Borghi che imita un sorriso che è una smorfia, e che rimanda al sogno ricorrente di Rocco Siffredi (lo racconta anche in un’intervista, mentre nella serie è meno esplicito): il diavolo. Qui ci parla di questo incubo che si ripete sempre uguale: lui fa un incidente e sta per morire, e per non farlo deve firmare un contratto con un omino che man mano che si avvicina diventa sempre più grande, più grande di lui; alla fine firma). Sogna il patto col diavolo, la serie non lo nomina. È una serie sulla vita di un ragazzo che diventa pornoattore in un’Italia bigotta, bigottissima. Il diavolo sembra parlare quindi di sensi di colpa, alla cattolica maniera; in realtà oniricamente è più vicino alla carta dei tarocchi che lo rappresenta. E dunque al vero argomento della serie tv: lo spirito dionisiaco, rispetto all’apollineo.

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Supersex

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Il problema? L’apollineo non c’è. Senza contrasto risulta tutto un’esplosione di mascolinità tossica, dalla violenza fisica del fratello e di ogni singolo personaggio a questo desiderio insaziabile del protagonista. Una serie decisamente fallocentrica (la parola “cazzo” è senza dubbio tra le più utilizzate): è molto poco perdonabile che in una serie sul sesso il piacere femminile non sia neanche nominato, invece (“clitoride”, una parola, un concetto, un organo troppo rivoluzionario per una serie sul sesso nel 2024? E pensare che è tra le nostre gambe da millenni). Sappiamo, comunque, che nel porno il piacere femminile non è esattamente il punto. Pertanto non è neanche il punto della serie.

Si diceva: ciò che c’è di interessante in Supersex non è il sesso, dunque cos’è? È la rappresentazione fedele del processo con cui “si diventa ciò che si è”, per dirla con Nietzsche. In cui si sviluppa e cresce e si stacca dall’albero la ghianda hillmaniana. Da Rocco Tano a Rocco Siffredi c’è una parabola autentica e fedele al Sé profondo che viene descritta e che si può seguire nella serie. Bizzarro parlare di autenticità per un personaggio che dichiaratamente si distacca (in quanto “liberamente ispirato”) dalla persona vera che c’è dietro. Forse è frutto dei tempi, forse il vero argomento è il marchio Rocco Siffredi. Come per il discorso che fu fatto con Barbie, ma più pericoloso, perché Supersex è una serie liberamente ispirata a una persona, Rocco Siffredi, a sua volta liberamente ispirata a una persona, Rocco Tano. Sono parecchi gradi di separazione per non parlare di personal branding anziché di persona, o al massimo di personaggio.

Quando muore il fratellino con disabilità lui lo racconta come il momento fondante del suo diventare questo supereroe che si chiama Supersex (Rocco è ancora un bambino). Dispiace che le persone con disabilità continuino a essere usate dal mondo del cinema per rendere più sofferta e splendente la parabola egocentrica di qualcun altro.

"Supersex", la nuova sfida attoriale di Alessandro Borghi

RSI Cultura 18.03.2024, 10:11

Interessante la dimensione di classe e la voglia di “fottersi il mondo” per “tornare ma tornare da re” nel paese d’origine.
Ma il vero elemento che merita l’appellativo di bello nella serie è il fratello di Rocco, Tommaso. Interpretato magistralmente da Adriano Giannini, è l’archetipo del fratello maggiore. Protettivo, coccola Rocco e gli apre la pista su tutto. Facendosi testa d’ariete e scudo, si ferisce anche di più. Non che non ferisca a sua volta. Rocco è il suo riscontro di realtà. Quello che fin da bambino gli comunica il tradimento da parte di Lucia (in questa fase noioso cliché di donna idealizzata, desiderata e temuta, insieme). Rocco è quello che si permette di desiderare. Ed è interessante come venga tacciato di essere “meno uomo” (massima onta, qualunque cosa che ti avvicini a una donna, nella cultura patriarcale) per il semplice fatto di praticare del sesso, tutto sommato, libero. Laddove invece Tommaso, con Lucia, ha impostato una relazione possessiva, di sfruttamento, tossica, come si dice.
È struggente perché non è che non sia amore. Eppure non lo è. Non lo è perché l’amore non deve essere qualcosa che controlla, che è violento. Lo è perché guardando la serie ti accorgi che questi due non hanno gli strumenti per amarsi diversamente. E quindi, per loro e limitatamente a loro, quello è amore. Una storia disperata e anche reciprocamente abusante che ricorda una parte struggente dello splendido libro Chav - Solidarietà coatta di D. Hunter:
«Faticavamo per riuscire a dire qualcosa di premuroso e amorevole, sia agli altri che tra di noi. Eravamo ancora circondati dalla violenza delle strade, dello Stato, dalla nostra stessa violenza. Ma, oltre l’istinto di sopravvivenza, ci aggrappavamo l’uno all’altra, alla ricerca di una valvola di sfogo, di una sicurezza che non avevamo mai provato prima».

Un memoir sicuramente più consigliato - se si vuole leggere di sex work e di chi con la povertà ha fatto i conti - rispetto all’agiografia di un pornoattore santificato in vita. Tutto ciò che parla di “cazzo” con la solennità con cui lo fa questa serie non può che perplimere. Non è problema, non è soluzione, è solo una parte del corpo. Piaccia o no al patriarcato, una serie che ignora l’esistenza del clitoride raramente darà soddisfazione a tutti, e soprattutto a tutte.

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