“Sono la passione, l’impegno civile e la curiosità che restano il grande motore. Diversamente, il fotogiornalismo è soltanto una sequenza di scatti senz’anima”. Osservando le innumerevoli fotografie che Mario Dondero ha realizzato nel corso della sua duratura e ammirevole attività di fotoreporter, salta subito agli occhi che loro un’anima ce l’hanno eccome, perché questo indimenticato protagonista della fotografia del secondo Novecento aveva passione, impegno e curiosità da vendere, insieme a una grande onestà. “Ho sempre pensato che il fotografo debba essere sorretto da una buona cultura, essere curioso intellettualmente e lealmente aperto verso il mondo. Una qualità assolutamente indispensabile, infatti, mi sembra l’onestà, ossia un’apertura senza pregiudizi verso il mondo”.

Mario Dondero, Santa vergine a Valencina de la Concepción, Siviglia, 1961
Scomparso nel 2015 a 87 anni, Mario Dondero resta una delle figure più lucide e coerenti del fotogiornalismo contemporaneo. Un’ampia mostra antologica dal titolo “Mario Dondero. La libertà e l’impegno”, in corso fino al 6 settembre a Palazzo Reale di Milano, ne ripercorre oggi la sfaccettata carriera. Visitarla equivale a compiere uno straordinario viaggio tra gli avvenimenti e i cambiamenti, i volti e le voci di oltre cinquant’anni di storia italiana e internazionale.

Mario Dondero, Ragazzi a Belfast, 1968
Dondero nasce a Milano nel 1928 da padre genovese e madre milanese. I suoi genitori si separano quando è ancora piccolo e lui si ritrova spesso a fare la spola tra il capoluogo lombardo e quello ligure. A sedici anni partecipa alla lotta partigiana in Val d’Ossola, mosso dai valori della libertà e della giustizia sociale, valori che lo accompagneranno anche nelle sue future scelte sul piano umano e professionale. Finita la Seconda guerra mondiale, fa ritorno a Milano, dove decide di seguire la strada del giornalismo, intravedendovi la possibilità di “partecipare in qualche modo alla vita pubblica”. Inizia collaborando con l’
Avanti!, diretto all’epoca da Sandro Pertini, che gli pubblica il suo primo articolo. Diventa quindi cronista di
Milano Sera, ma la prima esperienza di rilievo arriva con la rivista culturale
Le Ore, che lo assume con un contratto da inviato.

Mario Dondero, Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna, Roma, 1962
Nella Milano degli anni Cinquanta, Dondero frequenta, insieme ad altri giovani intellettuali, artisti e scrittori, il celebre bar Jamaica di Brera. È in questo contesto che nasce la sua ammirazione per il fotogiornalismo internazionale, in particolar modo per Robert Capa e Henri Cartier-Bresson. “Capa, forse il fotografo di cui si è maggiormente scritto, forse il più amato, ha esercitato un’influenza molto stimolante sulla nascita di tante vocazioni di reporter. Compresa la mia. All’inizio ci fu una valigia di fotografie: il nostro amico Alfa (Alfonso Castaldi) aveva mostrato al nostro gruppo di amici del bar Jamaica una selezione di foto ‘Magnum’ che teneva in una valigia. Ricordo immagini di Cartier-Bresson, Werner Bischof e Robert Capa. Era la prima volta che vedevamo quelle fotografie. Ci fecero grande impressione. Aggiungo che io facevo il cronista a Milano Sera e non avevo grandi nozioni di fotografia. Ero praticamente privo di cultura fotografica. Le foto di Capa, così impregnate di umanità, mi convinsero che la fotografia poteva essere una strada affascinante verso il futuro, un formidabile strumento di verità. Con stili diversi, Alfa, Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli, altri amici ed io, diventammo tutti fotografi. Quella valigia ci aveva aperto al mondo del fotogiornalismo internazionale e alle immense potenzialità che la fotografia racchiudeva” racconta Dondero nell’interessante volume Lo scatto umano. Viaggio nel fotogiornalismo da Budapest a New York (Editori Laterza, 2014).

Mario Dondero, Pastori nomadi nel Sahara, Assamaka, Niger, 1966
Quello milanese è un periodo di grandi stimoli, incontri e confronti, ma anche difficoltà (“Con Ugo Mulas andavamo persino al Monte di Pietà a impegnarci le macchine per finanziare i viaggi”). Si ispira proprio a Dondero il “Mario” di cui Luciano Bianciardi parla nel romanzo La vita agra del 1962. Questo Mario vive con altri amici nella pensione delle sorelle Tedeschi nel quartiere di Brera. Nel giro di pochi anni, però, la città di Milano inizia a stare stretta a Dondero, che sente il bisogno di allargare i suoi orizzonti. Tra i suoi propositi più grandi vi è quello di andare a Parigi, il “luogo della fotografia”. Così, alla fine del ’54 parte finalmente per la capitale francese, che ama fin dal primo istante e nella quale resterà, tra un viaggio e l’altro, per circa quarant’anni. Qui frequenta il Quartiere Latino, ritrovo di intellettuali e artisti, e pochi anni più tardi, nel ’59, scatta una delle sue foto più famose: quella che ritrae gli esponenti del Nouveau Roman, ovvero Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet e compagni, davanti alla sede delle Éditions de Minuit a Saint-Germaine-des-Prés. Da Parigi, Dondero collabora regolarmente sia per testate italiane (Il Giorno, L’Europeo, L’Espresso, Epoca, L’Unità) sia francesi (Le Monde, Le Nouvel Observateur, Regards…), documentando le lotte sindacali, i cambiamenti sociali in atto, la scena culturale, i grandi avvenimenti e la vita di tutti i giorni. Storia e piccole storie si avvicendano nei suoi reportage. In Italia rientra solo per brevi periodi, a parte una permanenza più lunga a Roma negli anni Sessanta, in cui frequenta e fotografa grandi personalità del mondo culturale capitolino, come Pasolini (memorabile il ritratto dello scrittore con la madre Susanna nell’appartamento dell’Eur dove abitano, uno scatto intimo e intenso), Laura Betti, Bernardo Bertolucci, Giosetta Fioroni, Goffredo Parise, Elsa Morante, Alberto Moravia… La Trattoria Cesaretto è il loro ritrovo d’elezione.
Une saison à Paris di Mario Dondero
RSI Info 14.12.2015, 10:29
Tornato a Parigi nel ’68, Dondero immortala le contestazioni e le rivolte del Maggio francese, documentando il clima di quei giorni in modo incisivo e autentico. Il suo stile fotografico è naturale e semplice, per nulla forzato o estetizzante, e per questo estremamente forte dal punto di vista espressivo. “La forma deve essere abbastanza impeccabile, perché le foto non devono essere squallide, brutte, però in esse l’elemento estetico non deve essere dominante. Una foto giornalistica deve avere un grosso contenuto rivelatorio di situazioni”. Con questo approccio sincero e con il desiderio di raccontare il mondo per immagini, di conoscere e confrontarsi, Dondero viaggia instancabilmente lungo tutta l’Europa, così come in Sud America, Asia e Africa, continente verso cui ha una predilezione speciale. Negli anni Ottanta, documenta l’attività di Emergency in Afghanistan. Insieme a lui c’è sempre la fidata Leica M3, la sua macchina prediletta.

Mario Dondero, Il ritratto di un giovane combattente repubblicano, scomparso in una fossa di Franco, Malaga, 2001
Alla fine degli anni Novanta, Mario Dondero decide di tornare in Italia. Si stabilisce a Fermo, nelle Marche, continuando a fotografare, scrivere, esporre e a collaborare con scrittori, giornalisti, registi e artisti. “Il fotogiornalismo è raccontare la vita con sincerità e lealtà e, per dirla con Ryszard Kapuściński, con ‘amore per la gente’” affermava. E questo amore per la gente lo si può ammirare pienamente nei suoi scatti: che si trattasse dei ragazzini per le strade di Belfast o dei campesinos di Aragona, del contadino di Sansepolcro o di Serge Gainsbourg, del ferito a Kabul o di Alberto Giacometti. “[…] A me le foto interessano come collante delle relazioni umane e come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”.

Mario Dondero, Nel carcere, Kabul, 2006
Belle le parole che lo scrittore Angelo Ferracuti dedica all’amico Dondero nel libro Non ci resta che l’amore: “Da ragazzino voleva fare il marinaio, poi è diventato fotografo. Per un narratore della realtà come lui era necessario oltrepassare frontiere, sconfinare, penetrare situazioni, e anche esserci con una forte presenza corporale […]. Gli interessava capire, tornando molte volte nei luoghi, ossessionato com’era dai sedimentati storici, culturali, etnici – attratto dalle loro contraddizioni – contestualizzandoli dentro le tante letture che precedevano l’azione vera e propria, affinché la complessità potesse alla fine sciogliersi nelle tante storie della Storia che ci ha lasciato in eredità nel suo vastissimo archivio”. Già, un archivio di valore e portata straordinari (250.000 diapositive a colori, 350.000 negativi in bianco e nero, alcune migliaia di stampe, 150 quaderni di appunti e annotazioni) che non racconta soltanto a noi tutti ma di noi tutti.

Mario Dondero
Laser 03.11.2014, 10:00
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