Shōnen è una brutta parola, ormai. Almeno per chi legge fumetti da un po’, e ne ha visti troppi, nell’ultimo mezzo secolo, di manga costruiti per piacere a un pubblico maschiadolescente, crasi che ho appena inventato e che userò diverse volte nelle prossime righe. L’industria del fumetto giapponese è infatti tradizionalmente abituata a dividere le opere per target di età e genere: si inizia con i Kodomo per bambini, si continua con shōnen e shōjo per ragazzi e ragazze, fino a seinen e josei dedicati a uomini e donne. Se pensate che questa divisione non sia più al passo con i tempi, beh, inutile lamentarsi: il mercato in Giappone sembra ancora rispettarla, nonostante esista un numero sempre maggiore di manga che mette in crisi una classificazione tanto rigida. Ma non è questo il punto.
Il punto è che gli shōnen sono diventati spesso noiosi, agli occhi dei lettori ormai non più maschiadolescenti: inevitabilmente, tutti sembrano somigliare a Dragon Ball. Nel senso che seguono sempre la stessa formula: personaggi su cui non punteresti un centesimo, apparentemente troppo ingenui, sicuramente troppo giovani, scoprono di avere una forza irresistibile. E cominciano a combattere battaglie di scala sempre più gigantesca: prima esplodono i muscoli dei singoli, poi i pianeti, le astronavi, gli dei. Mentre i cattivi diventano sempre più grossi, sempre più (apparentemente) invincibili, sempre più (senza dubbio) improbabili.
Akira Toriyama con Dragon Ball ha perfezionato la formula-shōnen che sarebbe diventata uno standard, come nel jazz. Una formula di tale successo, che nei decenni successivi sembrava quasi strano fare un fumetto per ragazzini maschi che non avesse a che fare con le arti marziali magiche e con il gioco del bigger is better, in un modo o nell’altro. Tanto che sono arrivati ad ottenere enorme popolarità anche prodotti che si prendevano apertamente gioco di queste convenzioni, come One Punch Man, il cui protagonista è talmente più potente di ogni altro essere che può porre fine a ogni duello, appunto, con un solo colpo, o Sfondamento dei cieli Gurren Lagann, che nella fase finale del racconto presenta robottoni alti 52 miliardi di anni luce (sic).
Al successo di Dragon Ball si sono ispirati direttamente i due più grandi best seller degli anni successivi, Naruto e One Piece, entrambe opere derivative che riprendono molti elementi di stile dalla tradizione shōnen degli ultimi decenni. Eppure, se trovo Naruto indifendibile dall’accusa di banalità, con la sua riproposizione (per quanto accattivante, per carità) di un catalogo di luoghi comuni estetici del genere, One Piece sembra invece avere sempre qualcosa di più. Nei 1130 capitoli di cui è composta (al momento in cui scrivo) l’opera, l’autore Eichiirō Oda ha dato forma a un mondo sterminato e meraviglioso, folle ed elastico come il suo protagonista Rufy (o Rubber, se preferite la prima traduzione della serie animata).
One Piece oggi ha quella caratteristica di universalità che sorprende sempre nei manga, considerando che sono il frutto di una cultura che ancora oggi mantiene tratti unici, radicalmente diversi da quelli del mondo globalizzato. Il Giappone è un’isola, non è solo una questione geografica. Eppure, oggi One Piece è letto e visto in tutto il mondo, in forma di fumetto o cartone animato. E se il primato nel settore dell’animazione è difficile da determinare (non esistono statistiche aggregate che permettano di calcolare il pubblico totale di una serie anime a livello globale), quello su carta è indubbio: One Piece ha piazzato più di mezzo miliardo di copie nelle librerie dei lettori di oltre 60 paesi, è tradotto in russo, turco, norvegese, portoghese, cinese, indiano e in altre decine di lingue.
Un’universalità che si riflette anche sulle possibili letture di questa storia di pirati, antiche divinità, governi dispotici, magia e tecnologia. L’avventura di One Piece può infatti essere interpretata come una narrazione reazionaria fondata su valori come la forza e l’onore, l’abnegazione e la lealtà (che del resto, non sono secondari per la cultura giapponese nel suo complesso), e centrata su uomini violenti (le donne sono poco più che elementi di sfondo: meglio ricordarsi che si tratta pur sempre di un fumetto per maschiadolescenti) che cercano una idea di “pace” esercitando la forza bruta. Oppure, al contrario, One Piece può essere considerato un inno alla libertà, intesa come valore da conquistare e difendere giorno dopo giorno. Lo stesso “One piece”, il mitico tesoro del re dei pirati Gol D. Roger che rappresenta il motore iniziale della storia, non sembra essere tanto costituito da oro e diamanti, ma dall’esperienza stessa del solcare il mare in libertà, esercitando pienamente la scelta di inseguire il proprio sogno e di combattere contro un’autorità – il Governo Mondiale, il cui nome dice tutto – dispotica, quando non apertamente fascista. One Piece è tutto e il contrario di tutto, e non c’è da stupirsene: l’epica creata da Eichiirō Oda negli ultimi trent’anni è ormai andata oltre qualsiasi lettura politica, soprattutto se filtrata dalla sensibilità occidentale, lontana anni luce da quella giapponese.
One Piece è semplicemente un paese delle meraviglie, un luogo della mente in cui l’immaginazione dà forma al paesaggio e agli abitanti. Un racconto fantasy in cui non esistono side quest, perché le deviazioni dal racconto principale sono l’essenza stessa della narrazione – o, se preferite, del viaggio.
Eichiirō Oda è nato il primo gennaio 1975 nella prefettura di Kumamoto, lembo sudorientale del Giappone. La madre era un’insegnante, il padre il più classico impiegato d’azienda, anche se nascondeva una passione divorante per la pittura, a cui dedicava la quasi totalità del suo tempo libero. Durante gli anni del liceo Oda ha deciso di diventare mangaka, ispirato dal già citato Dragon Ball. A partire dai sedici anni, ha inviato storie brevi a vari concorsi: nel 1992 è arrivato al secondo posto del Premio Tezuka, la più importante competizione manga per giovani talenti emergenti, intitolata all’autore di Astro Boy e Kimba il leone bianco, conosciuto in patria “dio del manga”. Nel 1994 ha vinto un altro concorso istituito dalla più importante rivista di manga del Giappone, Weekly Shonen Jump dell’editore Shueisha, titolo che gli ha spalancato davanti una carriera destinata a decollare nel 1997, con l’avvio della pubblicazione di One Piece.
Oggi, in giro per Kumamoto ci sono dieci statue dedicate ai personaggi di One Piece, ma sono molti gli angoli del paese che parlano di Eichiirō Oda, il mangaka che non appare mai in pubblico e nelle rare interviste non mostra mai il volto. In compenso, scrive spesso messaggi ai suoi fan, in cui esorta i più giovani a prendersi le libertà che possono, e a non seguire necessariamente il percorso prestabilito, come ha fatto lui. La filosofia di One Piece sta tutta qui: offrire – anche all’interno di una società come quella giapponese, ossessionata dal lavoro, dalla carriera, dalla performance – una via di fuga da ogni strada segnata. Meglio godersi le deviazioni, anche se portano lontanissimo e allontanano l’obbiettivo (il tesoro) finale.
E se, nel frattempo, capita di dover combattere contro elefanti alti trenta chilometri che portano intere città sulla schiena, tanto meglio.