Letteratura

Editoria ancella del capitalismo

Quando la letteratura non fa più mondo ma solo mercato

  • 08.09.2019, 08:21
  • 05.09.2023, 14:56
libri editoria
Di: Marco Alloni 

È difficile che uno scrittore, soprattutto se autentico, si preoccupi dello stato dell'editoria. Se uno scrittore è autentico di norma preferisce anteporre alla propria personale ansia di prestazione o visibilità il proprio pathos creativo: preferisce scrivere e affinare pensieri e stile.

Ma anche il più sincero e rigoroso degli scrittori non può oggi non riconoscere che l'editoria, ovvero il suo diretto datore di lavoro, è quanto meno agonizzante. O per dirla con la famosa formula che si impiegava nel Novecento per il romanzo e la poesia: è ampiamente morta.

Tranne lodevoli eccezioni – fra cui andrebbe ricordata l'Adelphi di Roberto Calasso – la tendenza dell'editoria contemporanea è infatti quella di aver ormai prestato il destro a una sorta di sudditanza alle logiche di mercato, cedendo così a quel diktat implicito in ogni sistema capitalistico secondo il quale qualsiasi oggetto proposto al pubblico deve essere commerciale e ogni prodotto rientrare nella categoria della consumabilità.

Roberto Calasso

Roberto Calasso

Fenomeno probabilmente inevitabile, forse persino irreversibile. Ma che nel consegnare le opere letterarie – ovvero i prodotti artistici e culturali – al medesimo principio consumistico che sovrintende alla vendita delle saponette e delle pantofole di gomma determina di fatto un modus pensandi divenuto ormai trasversale: purché venda, un prodotto è da ritenersi vincente o addirittura di qualità.

Così ecco che l'aberrazione di subordinare alla vendibilità, alla commerciabilità, alla prostituibilità mercantile anche romanzi saggi e poesie ha finito per ribaltare di 360 gradi l'approccio al prodotto estetico-culturale, subordinando in sostanza l'editore al consumatore. Ed ecco che laddove fino a qualche decennio fa – quando gli editori facevano gli editori e gli scrittori gli scrittori – un'opera cominciava a vendere quando valeva, oggi comincia a valere quando vende.

Valere sul piano della visibilità, naturalmente, valere sul piano della gratificazione editoriale e del ritorno economico. Ma pur sempre valere a prescindere da qualsiasi riconoscimento oggettivo, critico, letterario ed estetico in quanto tale.

Giovanni Raboni

Autori di livello modesto vedono così lievitare la loro importanza, grazie alle vendite, indipendentemente da qualsiasi consacrazione critica degna di questo nome, anzi spesso in contrasto con le critiche che gli addetti ai lavori hanno formulato sulle loro opere. L'entrata in classifica o il conseguimento di questo o quel premio determinano poi il colossale equivoco secondo cui tali autori sarebbero importanti perché premiati. Equivoco epocale e drammaticamente trasversale a tutti i generi letterari, ma di cui ormai sembra non accorgersi più nessuno.

Invece di educare il pubblico e sollecitarlo alla qualità, l'editoria ne viene così deliberatamente diseducata. La plebe vuole De Carlo e la Ferrante? L'editoria gli propina De Carlo e la Ferrante. Il volgo vuole Volo e Moccia? L'editoria gli elargisce allora Volo e Moccia. E via di questo passo fino a quell'aberrazione che sulla scia del più strabiliante ossimoro affermatosi nella contemporaneità – la cultura di massa determina lo stato attuale dell'editoria: avere di fatto subordinato la cultura all'ignoranza.

Si dirà che è un segno dei tempi, come è segno dei tempi rassegnarsi al fatto che autori come Tolstoj, Joyce, Musil o Céline non verrebbero oggi, se fossero vivi, probabilmente mai pubblicati. E come è segno dei tempi che si chiami «filosofo» De Crescenzo e «scrittore» Veltroni.

Ma se questo è un segno dei tempi la domanda risuona ancor più prepotente e necessaria: per quale ragione anche la cultura, anche la letteratura, anche l'arte devono patire questo abominio di venir vendute come suppellettili?

Perché la parola e la cultura, Dio e l'arte non fanno più mondo. Perché capitalismo vuole che a fare mondo siano ormai solo il denaro e i suoi prodotti. E perché finché non si ripenserà il capitalismo alla radice lamentarsi che anche l'editoria ne sia diventata una sorta di ancella rischia di apparire una preoccupazione da anime belle.

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